domenica 22 gennaio 2017

L'ultimo ospite

“Una valanga… sì, l’hotel Santa Lucia… sì, aspettiamo rinforzi, d’accordo.”
L’ultimo ospite giunge inatteso, ad un’ora imprevista del pomeriggio.
“Sono bloccati dalle tre di questo pomeriggio. Abbiamo ricevuto l’allarme da uno dei superstiti. Vi terremo aggiornati sull’evoluzione dei soccorsi”.
L’ultimo ospite non ha prenotazione, non ha di che pagare ma tutti gli gridano tra le lacrime che paghi. O che qualcuno paghi per lui.
“Porca puttana. Si è ribaltato il gatto delle nevi. Non riusciamo a intervenire al momento. Quante? Venti. Forse più. Manda gente, cazzo”.
Non conosce nessuno, ma spia nelle camere di tutti. Abbatte le porte, sfonda i soffitti.
“Ho ricevuto questa chiamata due ore fa. Piangeva. Diceva mia moglie e i miei figli sono lì dentro. Ho dato l’allarme. Non mi hanno creduto”.
L’ultimo ospite è quello inatteso, che non si fa ignorare.
Porta silenzio, dopo molto rumore. Porta assenza, dopo molto colore.
Non c’è che lui ormai e non esiste più un fuori e un dentro, perché fuori e dentro si sono incontrati e fusi. E quello che era fuori è sprofondato dentro e quello che era dentro è dilaniato e aperto.
L’ultimo ospite ha scacciato il vuoto. Perché con lui non esiste spazio che non possa essere riempito. Ha sconfitto l’esterno, perché non si vede più niente, niente più si sente al di là di lui.
“Come potete vedere l’hotel è interamente sepolto. Quello che emerge, una volta era il tetto. Ci riferiscono che molti degli ospiti si potrebbero essere rifugiati ai piani interrati. Sembra una nave affondata”.
L’ultimo ospite grava pesante sui piani inferiori. E’ diventato soffitto, pareti, panorama e cielo.
L’ultimo ospite ghiaccia l’aria nei polmoni, ma di aria ne rimane poi ancora poca ed è un sollievo.
Lui è freddo e attesa e silenzio.
L’ultimo ospite ha cantato ai bambini una ninnananna di rombi sonori e di suoni cupi, fino al sonno. Poi ha tirato con cura sui loro corpi una spessa coperta di ghiaccio.
“Ci sono mia madre e mio padre lì dentro! Lui era andato in pensione. La prima vacanza dopo tanto tempo.”
L’ultimo ospite si è intromesso tra marito e moglie, ha appianato tutti gli screzi che duravano da anni.
L’ultimo ospite ha scaraventato il cameriere tra le braccia della proprietaria, un abbraccio che entrambi aspettavano da tanto, ma non pensavano che così sarebbe stato.
L’ultimo ospite spinge a lacrime, rimpianti e confessioni.
Volevo vederti crescere. Volevo toccarti ancora. Avrei voluto vivere meglio. Vorrei che tu non fossi qui.
Se solo lo avessi fatto. Se solo non fossi venuto.
L’ultimo ospite tutte le ascolta, le assorbe e le trasforma in silenzio, sempre più prossimo sempre più stanco.
“Quello che vi possiamo promettere è che faremo tutto il possibile in questa situazione”.
L’ultimo ospite ormai conosce tutti.
Ha visto il cuoco scavargli la faccia con le mani, furiosamente, fino a che non riusciva più a chiudere i pugni e le dita sembravano cadergli.
Ha visto l’uomo vecchio piangere sul corpo ancora caldo del suo cane, come fosse l’unica cosa che ancora contasse.
Ha visto l’uomo bugiardo confessare la sua lunga vita a una moglie commossa, commossi entrambi di scoprire di amarsi.
Ha visto la ragazza realizzare che non avrà più un futuro per cui doversi preoccupare e sentirsi improvvisamente senza niente.
Ha visto la receptionist mettere a posto le ultime carte lentamente anche se era il suo volto bianco l’unico interlocutore che ormai aveva davanti.
Ha visto cose brutte del cuore degli uomini e cose bellissime troppo strazianti per poterne parlare.
“Per questa notte dobbiamo interrompere gli scavi, c’è rischio di una nuova slavina”.
L’ultimo ospite è rimasto fino a notte. E rimarrà fino a che ne avrà voglia.
“Non pensiamo possano esserci superstiti”.
Ora tutto tace nel dentrofuori. I sussurri, i singhiozzi e le urla.
Nessuno più entra, nessuno più esce.
L’hotel è al completo.

giovedì 12 gennaio 2017

La scrittura è un aereo esploso

Mi hanno chiesto chi fossi. Io ho risposto: quando?
Sono e sono stata moltissime cose. Ma non ho capito ancora chi è me. Mi sento il luogo di approdo di molti esseri di passaggio e mi diverto ad accoglierli e salutarli. Ogni tanto dimenticano qualcosa che tengo lì, per loro. Sono contenta se tornano a riprenderselo e soggiornano ancora un po’.
Ho conosciuto uomini e donne nella mia strada. Alcuni sono rimasti sempre prepotentemente loro stessi, ma la maggior parte di loro, invece, era cangiante e li vedevo evolversi e mutare ad ogni passo.
C’è un ordine e un insieme in questo cambiamento. Noi siamo l’insieme che contiene i nostri cambiamenti. Alcuni insiemi esplodono, difficile rattoppare un insieme esploso. Lungo, faticoso, doloroso. Ma si può fare. Solo che raramente conterrà di nuovo qualcosa di quello che era in lui quando è esploso.
 Di queste anime esplose io sento l’odore, il puzzo di bruciato che si portano dietro. Ma anche la forza, una forza febbrile, di chi ha superato un tabù e gli è esplosa pure la paura.
Di queste anime da tabula rasa io ho profondo rispetto, compiono manualmente e coscienziosamente un processo che alla maggior parte degli esseri umani l’esperienza e la vita hanno realizzato dentro all’insaputa di loro, con un lavorio cieco e sotterraneo. 
Io non esplodo. La mia anima procede per accumulazione. Il sistema razionale del mio insieme è crollato molto tempo fa. Lo immagino come una di quelle case dei vecchi, dove le cose si accumulano anno per anno, raccolte da loro stessi o portate dalle persone e dalla vita, e però non si ha più la forza né la voglia di sistemarle e catalogarle, tenerle o gettarle. Ti circondano e ti fanno compagnia, ci riconosci tante diverse fasi della tua esistenza, ma rendono l’aria pesante, ogni cosa pesante. E dopo un po’ tutto odora di polvere e di legno vecchio.
A volte vorrei che il mio insieme esplodesse e tutto volasse via fuori, come da un finestrino rotto di un aereo in volo. Vorrei che passasse aria, tanta aria, e vorrei guardare le cose della mia anima franate sul terreno di sotto, sparse pezzo pezzo su tutto il cammino, mentre io avanzo leggera e più sono leggera e più acquisto velocità.
Se non fosse che temo la depressurizzazione e lo scompenso singultoso che provocherebbe questa esplosione.
 Se non fosse che poi sarei vuota all’improvviso e il vuoto mi fa paura.
E allora ho pensato di regalare queste cose. Regalarle a tutti. A chi vuole. Poco alla volta, dedicando il giusto tempo ad ognuna, tenendo nella testa un’ultima volta il ricordo e le sensazioni che portano con sé, come un sorso di vino che si trattiene un momento in bocca prima di lasciarlo cadere in gola.

Forse quello che faccio con la scrittura è proprio questo: un lavoro di svuotamento, per fare cambiare aria, per fare spazio alle cose nuove.

lunedì 9 gennaio 2017

Egregio Signor Giuseppe Tomasi, via Butera, 28 – Palermo




Egregio Signor Giuseppe Tomasi, via Butera, 28 – Palermo

E’ vero, ho rifiutato il tuo libro. Ho rifiutato Il gattopardo e Don Fabrizio Salina. E te. Soprattutto te. Come potevo fare altrimenti, dimmi? Come potevo io, da Siciliano, non rifiutare tutto quello che andavi dicendo sui Siciliani? Tutto quello che volevo che cambiasse. Che tutto cambiasse. E che invece tu condannavi all’ ineluttabilità dell’eternità?
E’ vero, non ho detto che il libro fosse brutto. Era incompleto. Mancava un finale diverso. Perché tu non eri in grado di concepirne uno. Tu che eri convinto che le forze eterne, immutabili, inesauste che scorrevano negli uomini, scorressero sempre e comunque nel sangue di tutte le epoche, di tutti i siciliani, di tutti gli italiani, rendendogli le vene pesanti come piombo. Tu che stavi morendo e sentivi il tuo fluido vitale seccarsi, anzi gocciolare via in granelli. Come potevi tu credere che potesse essere fatto qualcosa di diverso? Serviva troppa energia vitale per farlo. E tu non ne avevi quasi più. Ma del resto non ne avevi avuta neanche quando la tua morte era ancora lontana. Tu vivevi da sempre con un piede nella morte. 
Non ho detto che il tuo libro era insincero. Anzi, ti ho scritto che era serio e onesto. Onesto senz’altro. Avevi capito il popolo siciliano. Sapevo che avevi capito. Ma non era quello attuale. Non doveva essere quello attuale. E’ un po’ vecchiotto, ti ho detto. Vecchio. Sembra uno di quei libri dell’ottocento. 
Te l’avevo già rimandato indietro, l’anno precedente, quando ero in Mondadori. Bello era bello. Lo avevo detto anche all’editore. Ma era incompleto. Mancava qualcosa. Aggiungilo e poi rimandacelo qui. Me lo hai rimandato. A me. Anche se lavoravo, l’anno dopo, in Einaudi. Mite, riflessivo, profondamente consapevole, di una sapienza antica e di una pazienza secolare, avevi ripreso su la penna e avevi aggiunto due capitoli. Ma non avevi capito. Forse sei morto, un anno e due giorni più tardi, senza capire mai. Senza capire il mio rifiuto. 
Mancava qualcosa nel tuo romanzo. Il finale, hai pensato. No. Mancava il futuro. Mancava il tempo. Tu non credi in nessuno dei due. Tu sei come una divinità vecchia e stanca, vedi tutto, ma lo vedi dall’inconclusività della tua eternità. Lo vedi eterno. Ti sei dimenticato il tempo. Tu hai scritto di quello che sempre rimane immutato nell’animo dell’uomo dopo duecento come dopo duemila anni. Non credi al tempo. 
Ma perché? Credi davvero che tra duemila anni prima e ora l’uomo non sia mutato affatto? No, forse lui no. Ma la sua vita non credi sia mutata? 
E’ in questi piccoli mutamenti di vita che dobbiamo credere. Vogliamo credere. Altrimenti nulla sarebbe mai meglio e tutto peggio, come nel mondo dei tuoi Sedara. 
Mi hanno accusato di averti respinto per motivi politici. No, non è vero. Ti ho respinto per motivi umani. Perché avevo pietà degli uomini, perché tengo a loro. Anche tu avevi pietà degli uomini ma non tenevi a loro. Non tenevi neanche a te stesso. Ti facevano però compassione. Li guardavi nel tuo libro come qualcosa di bellissimo e straziante, come un cucciolo di cane morto sulla strada. Qualcosa di puro ma di irreparabilmente corrotto, perché destinato alla decomposizione. Già in decomposizione. 
Il tuo libro è bello. Di una bellezza terribile e inumana. I tuoi luoghi polverosi e sabbiosi, i tuoi uomini stanchi e condannati, i tuoi arazzi e tappeti e cannocchiali che puntano sempre al cielo hanno il passo incontestabile e altissimo del capolavoro. Di quegli affreschi che sono scoperti a marcire dietro una mano di intonaco e poi, portati alla luce, sono di uno splendore passato, stinto, che mozza il fiato. 
Bassani ti è venuto a cercare, pure dopo che sei morto. E’ andato dalla tua vedova, ha voluto il manoscritto originale. Che non fosse in nulla contaminato da me e dalle mie richieste. L’ha portato in Feltrinelli, ha fatto di te quello che sei ora, uno dei più noti scrittori italiani di tutti i tempi. 
Bassani, lo scrittore dei vinti. Dei finiti. Come poteva non essere stregato da te? Che sei il dio dello splendore del tramonto, dell’abbandono, del languore, dell’ineluttabilità. Come non potevate parlare la stessa lingua segreta fatta di rinunce, di sofferenza, di accettazione e di scuotimenti di capo? 
Ma era te che avrei voluto attirare nella vita. Nella vita potente e prepotente che io invece coglievo tutto intorno. Nella necessità, nel dovere, di agire, di spronare, di smuovere. Di dare una botta ai Sedara, gettarli di fianco, e mettercisi al loro posto. 
Tu eri il nemico, Tomasi. Tu sei sempre stato il mio nemico.
Non è di destra o di sinistra che stiamo parlando. Non di progressisti o conservatori. Di nobiltà e borghesia. Credimi. Nonostante la mia storia politica e la mia storia di vita, non è per questo che ti ho respinto. 
Io ti ho respinto perché sono un essere umano. Nient’altro. Con la debolezza di sperare, con il desiderio di credere che i giorni passino sopra i giorni, che il tempo sia quel tempo che si butta in avanti e là rimane, che si possa fare qualcosa con questa imperfetta, mobile, corrotta, stupida, disastrosa materia umana.
Perdonami Tomasi. Perdonami perché sono un uomo. Come te. Uno di quelli per cui hai inventato la pietà. Per cui sei morto di pietà.

Elio Vittorini




Giuseppe Tomasi di Lampedusa incontra Giorgio Bassani ad un concorso di poesia. Ancora non sanno che neanche un anno dopo la sua morte sarà Bassani stesso a volere fortemente e con insistenza che il suo libro vedesse la pubblicazione con l’editore Feltrinelli per cui lavorava, arrivando a recarsi lui stesso dalla vedova dello scrittore a prendere nelle mani il suo manoscritto originale. Tomasi di Lampedusa ha già scritto Il Gattopardo, ma non lo ha ancora proposto a nessun editore. Sceglie, nel 1956, Elio Vittorini, che lavora in Mondadori. Si dice che, quella prima volta, Vittorini non abbia nemmeno letto il dattiloscritto. Gli era arrivato dinanzi, infatti, accompagnato dai pareri di tre lettori. Tutti e tre bocciavano il romanzo, pur se lodandone molte caratteristiche. Vittorini mandò all’editore una nota con una breve sintesi dei tre giudizi, con il suggerimento di chiedere all’autore di migliorare l’opera e rinviarla una volta integrata. Era il 22 ottobre 1956 e così diceva la nota: “Per i due primi lettori il lavoro manca soltanto di abilità; per il terzo di determinazione morale. Manca comunque di qualcosa che rende monco il libro pur pregevole. Non si può far capire all’autore che dovrebbe rimetterci le mani (e in qual senso)?”. Questa si tradusse, nelle spire editoriali, in una lettera di netto rifiuto consegnata il 10 dicembre seguente. Tomasi di Lampedusa scrisse due nuovi capitoli e nel 1957 rispedì l’opera a Vittorini che, in quel tempo, lavorava nell’Einaudi. Nuovamente il testo passò al vaglio di due lettori, ma questa volta fu Vittorini stesso a firmare la lettera di rifiuto.

Egregio Tomasi, 

il suo Gattopardo l'ho letto davvero con interesse e attenzione. Anche se come modi, tono, linguaggio e impostazione narrativa può apparire piuttosto Vecchiotto, da fine Ottocento, il suo è un libro molto serio e onesto, dove sincerità e impegno riescono a toccare il segno in momenti di acuta analisi psicologica, come nel capitolo quinto, forse il più convincente di tutto il romanzo. 
Tuttavia, devo dirle la verità, esso non mi pare sufficientemente equilibrato nelle sue parti, e io credo che questo "squilibrio" sia dovuto ai due interessi, saggistico (storia, sociologia, eccetera…) e narrativo, che si incontrano e scontrano nel libro con prevalenza, in gran parte, del primo sul secondo. […]
Voglio dire che, seguendo passo passo il filo della storia di don Fabrizio Salina, il libro non riesce a diventare (come vorrebbe) il racconto d'un epoca e, insieme, il racconto della decadenza di quell'epoca, ma piuttosto la descrizione delle reazioni psicologiche del principe alle modificazioni politiche e sociali di quell'epoca. […]

Con i migliori saluti, suo Elio Vittorini.

La lettera fece in tempo a giungere a Tomasi di Lampedusa, due giorni prima della sua morte.

martedì 3 gennaio 2017

La ballata delle scarpe perdute


Riversa nell’erba sporca, la suola verso l’alto, fisso il cielo nero e umido. Vicino a me due bottiglie vuote, una busta di plastica, una siringa usata. Il fiume è a pochi metri, non più di due passi e mezzo. Se potessi muovermi, inizierei a scuotermi con violenza da un lato e dall’altro, sempre più forte, sempre più rapida. Finché non cadrei in acqua. A ricongiungermi col piede che mi calzava.

Non mi hanno più trovata dall’estate del 2005. Giocavano a chi tirava le infradito più lontano. Io sono finita in una fenditura della scogliera, scivolata dietro una sporgenza di roccia scura, dove solo i gabbiani arrivano e subito ripartono. Ma ero così leggera. Per un attimo mi è sembrato di volare.

Ero ancora al suo piede quando hanno iniziato a baciarsi furiosamente, con fame. Lui le aveva afferrato il sedere con una mano, con l’altra cercava di sfilarmi via. Ma io resistevo. Resistevo tenacemente. Poi è stata lei, mi ha sciolto i lacci come sapeva fare, mi ha sfilata senza nemmeno guardarmi, senza staccare la faccia da lui. Mi ha gettata via.

Era minuscolo. Sono minuscola anch’io. Non più grande di un pugno. Sono scivolata via mentre lo portavano di corsa in ospedale, dopo l’ennesima crisi respiratoria. Non sono più tornati a cercarmi.

Mi aveva fatta con cura. Puntale e contrafforte in cuoio pregiato, fodera e tomaia nella migliore pelle, chiodatura del tacco in ottone, rinforzo di metallo. “Queste – diceva alla moglie mostrandomi – le calzerà Vincenzo il giorno della sua laurea”. Quando terminava la cucitura “blake”, anni dopo, mi alzava e diceva alla moglie “Ancora qualche anno e si laureerà. E’ tutta la vita che lavoro per quel momento, per vedere Vincenzo con le mie scarpe il giorno della sua laurea”. Col tempo ha lavorato sempre meno a me finché non ha smesso del tutto. Non ha mai fatto la mia gemella.

Mi ha portato per anni e anni. Forse venti, forse trenta. Abbiamo fatto migliaia di chilometri, visto decine di città, dormito all’aperto o in cameroni pieni di gente. Mi ha difeso da due mani che cercavano di strapparmi via durante il sonno. Abbiamo camminato tanto insieme che mi si è aperto un sorriso sul davanti e dalla mia suola bucata mi si vedeva tutto il sottopiede. Ma non mi è mai importato. Oggi, semplicemente, è caduto. All’improvviso. Non ho sentito più il suo peso familiare su di me. Infarto, infarto, diceva la gente tutta intorno. Lo hanno portato via che già non respirava e sulla strada sono rimasta io sola.

Sì, sono stata io. Correva. Era senza fiato ma continuava ad andare. Lo inseguivano, gli urlavano di fermarsi, arrancavano. Io sentivo di farmi sempre più larga, qualcosa si andava allentando. Era il mio momento. Lo aspettavo da sempre. Individuai un sasso grande nel terreno. Mi ci buttai contro. Lui rotolò a terra, io finii qualche metro più avanti. Lo raggiunsero, lo legarono, lo portarono via. Non riuscivo a crederci. Finalmente libera.

Era la mia metà, la mia gioia. Il mio completamento. Così uguale eppure così diversa. Era lo specchio di me. Ogni mia sporgenza era una sua rientranza. Ogni suo graffio sulla pelle, il segno del mio tempo che trascorreva. Amavo ogni screpolatura della nostra vecchiaia, amavo come si andava stingendo. E così lei con me. Poi un giorno, quei rumori terribili. Urla dall’alto, grida, pianti. Fu afferrata, in uno scatto cieco, in un lampo di secondo, la vidi levata in alto e scagliata via. Mancò l’uomo cui era diretta, volò via dalla finestra aperta del quinto piano e non la vidi mai più. Vittima di una guerra incomprensibile che non era la nostra.