venerdì 15 dicembre 2017

Un corpo solo


Sono tornato a casa perché mio fratello sta morendo. Ha ventinove anni, due più di me, lavora nel negozio dei miei e vive nella stessa strada dove siamo cresciuti. Mi ha chiamato lui, ma non per guardarlo morire. «Fosse per questo non ti avrei scomodato, Vincé. Non è mica una bella cosa vedere la gente morire.» Mi ha chiamato per la partita. La maledettissima partita di qualificazione per il torneo. Tommaso gioca da tre anni in una squadra di rugby del suo quartiere, quando torno giù e ci vediamo non fa che descrivermi per ore le partite in mezzo al fango e sotto la pioggia. E più c’è fango e più c’è pioggia più lui è contento, gli si illuminano gli occhi ed è come se quegli ostacoli là spazzassero via tutto il resto. Spazzassero via il fatto che ha un cancro alla pelle, ad esempio. «Io sono il mediano di mischia. Come fanno senza di me?» «Ma chi se ne fotte del rugby. Fammi il piacere.» «Io. Io me ne fotto, hai capito? Non li posso lasciare soli. Per questo ho chiamato a te.»
Scuoto la testa e guardo la sua faccia tirata, il corpo è debole, poggiato sul lettino come fosse stato dimenticato là. Gli occhi invece no. Gli occhi hanno assorbito tutta la forza che è sparita dal resto e mi fissano senza mollarmi un attimo. Un pallone ovale stretto saldo tra le braccia. «Mi devi aiutare. Devi essere me». «Ma che cazzo dici, Tommà? Sei diventato scemo?» «Devi essere il mio rimpiazzo. Almeno finché non mi rimetto in forze. Un po’ di tempo ce l’ho prima che mi diventi definitivo.» Non riesco a guardarlo per troppo. Ѐ più forte di me. Devo passare a fissare la flebo, il televisore spento o le mie scarpe, perché se no mi viene voglia di piangere e questo non me lo perdonerebbe.
«Te lo ricordi a Pasquale?» «Chi Pasquale?» «Puccettone.» «Ah, Puccettone e come no. Come sta?» «Bene bene, si è aperto un chiosco nella piazzetta.» «Ma dai.» «Devi andare da lui.» «E perché?» «Perché ti deve spiegare.» «Ma cosa? Ancora fai?» «Ti devi allenare, Vincè. La partita è tra un mese.» «Sei diventato tutto scemo.»
***
Nel rugby lo scopo è semplice: appoggiare il pallone oltre la linea di meta. Tutto il resto è un gran casino di regole, passaggi, mischie, infortuni e falli. Un po’ come la vita. La meta è chiara. Ѐ come ci arrivi che fa tutta la differenza del mondo. Lo puoi fare in tanti modi. Puoi calciare da lontano accettando il rischio, puoi prendere quello che desideri in mano e iniziare a correre tenendotelo stretto, puoi condividerlo con chi ti è più vicino e tenerlo d’occhio ed essere pronto quando sta per ripassartelo. Una cosa è certa, che non puoi farlo da solo. Neanche nascere puoi farlo da solo. Questa cosa è fondamentale da capire se vuoi capire il rugby. Non sarai mai solo. Mai. Non puoi dimenticarlo manco un istante perché se no finisce che ti perdi i vari richiami della tua squadra. E avanzi che sei praticamente cieco. I compagni ti sono dietro o al lato. Non è con gli occhi che puoi vedere. Devi imparare a sentire. Come fossero parti del tuo corpo, come se foste collegati e devi solo metterti in ascolto per capire dove sono e cosa fanno. Perché è questo che si fa: corri cieco verso una meta che non sai come raggiungerai e da un momento all’altro ti possono atterrare prendendoti ai fianchi e ti può arrivare addosso una pioggia di corpi che ti bloccano. La vita, appunto.
***
«Che piacere vederti, Viciè. Veramente. Ti trovo bene.» «Pure per me, Pasquà.» «Non scendi mai.» «Eh lo so. Il lavoro…» «Eh, il lavoro.»
Pasquale mi mette la tazzina bollente davanti e poi passa lo strofinaccio sul bancone. Se non fosse per quel guanciale di barba tutto intorno alla faccia, avrei detto che ha continuato ad avere undici anni per tutto questo tempo. «Non sei cambiato per niente proprio.»
Già a undici anni era grosso e massiccio. Faceva paura quando si arrabbiava e si metteva a urlare. Ma non succedeva quasi mai. Era una delle persone più pacifiche che conoscessi. Riusciva a mantenere la calma sempre. Quasi. Si arrabbiava quando qualcuno di noi faceva una cazzata. Quando Ferruccio ha iniziato a farsi, ad esempio. Chissà come sta. Chissà se è morto o in prigione. E Cristiano. E Maria Pia.
«Mi dispiace per tua madre, l’altro anno.» «Grazie. Ma era vecchia, che ci vuoi fare. Io per Tommaso proprio non…» Mi guarda e si ferma. «Mi dispiace, Viciè.» Annuisco.
«Tommaso ha detto che giocherai con noi.» «Ci provo, Pasquà. Non vi assicuro niente. Non ci capisco un cazzo di questo sport.» Fa un gran sorriso. «Ma non c’è niente da capire. Devi solo mettertici dentro e fare. Ah, e non aver paura di farti male. Cioè all’inizio sì, è normale. Poi capisci e smetti.» «Di farti male?» «Di avere paura.»
A diciotto anni non mi importava cosa avrei fatto, volevo solo andarmene da lì. Da quella città stretta, dalle case popolari, dall’assenza di tutto, dalle stesse facce che facevano le stesse stronzate, dalle notizie di quelli che venivano beccati o che morivano troppo giovani. Io volevo studiare e ho studiato. Trovarmi un lavoro e l’ho trovato. E non tornare più. Ma non ce l’ho fatta. Non con Tommaso così. Ho lasciato tutto, ho lasciato il lavoro e sono di nuovo qua. A non fare un cazzo. A vedere le stesse persone. Gli stessi palazzi di trenta metri con le minuscole finestre e i minuscoli balconi schierati come soldatini.
Dopo un po’ che ero là, senza incontrare nessuno, senza uscire mai di casa, Tommaso se n’è uscito con sta storia del rugby.  «Ci stanno tutti, vedrai. Tutti quelli del gruppo. L’abbiamo fondata proprio noi la squadra.» «Ma perché io? Non so giocare. Perché non può farlo un altro della squadra oppure uno nuovo?» «Perché nel rugby, Vincé, si passa solo all’indietro. Ricordatelo questo.»
***
Aspettiamo i ragazzi per l’allenamento. Non hanno proprio un campo. Giocano nel parco, attenti a non colpire vecchiette o affondare carrozzine. «Tutto allenamento per la precisione dei tiri.» Hanno provato a chiedere spazi al comune, ma non ne vogliono sapere. «Noi siamo una squadra popolare. Che vuol dire che non ci facciamo pagare la quota. Lo sport deve essere per tutti. A disposizione. Ma ci mancano gli spazi.» Spazi. Se guardo a come è cambiata la mia città in questi otto anni, direi che è un problema comune. Gli spazi vuoti è come se se li fossero mangiati e gli fossero tornati su palazzi e pompe di benzina come rigurgiti. Il rugby ha bisogno di spazio. E fango. E docce. «Non scordarti le docce, sono una cosa fondamentale. Quando giochi e sudi per due ore d’inverno, se non ti lavi e non ti asciughi ti si ghiaccia tutto addosso e sei fottuto.»
Pasquale mi è venuto a prendere davanti casa, come se non sapessi dove sta il parco del Mercatello. Ma forse ha pensato che sarebbe stato meglio per me averlo vicino, aspettando di rivedere tutti loro.
«Che cosa fai tu? Placchi, corri, attacchi?» Pasquale si fa professionale: «nel rugby devi capire una cosa. Tutti fanno tutto. Devi saper correre, placcare, difendere, attaccare, passare. Devi essere pronto a fare quello che serve. Troppo facile se ti limiti a stare nel tuo. Devi saper cambiare. Essere flessibile. Adeguarti a quello che ti si prospetta volta per volta. Devi essere imprevedibile. Come l’ovale quando rimbalza.» «Però ci sono i ruoli no? Mio fratello era mediano di mischia.» «Ѐ mediano di mischia. Tu sei solo il rimpiazzo, non ti montare.» «Tu che sei?» «Io sono un pilone.» «Che fa il pilone?» «Tiene insieme tutto. E regge il colpo nella mischia. La mischia è quando stanno tutti abbracciati e poi spingono contro quegli altri avversari. Più o meno.» «E tu che fai?» «Sto là perché non crolli tutto.»
«No, non ci posso credere! Vincenzo!» Mi salta al collo e per un attimo vedo solo uno schermo di capelli biondi. «Maria Pia?» «Vincenzo ciao! Come sono felice che sei sceso.» Maria Pia è una ragazza tutta gambe. Esile. Il suo nome di battaglia nel rugby è la gazzella di Pastena. «Vedessi come corre.» Me la ricordo a dodici anni, con quelle gambe secche e nemmeno una curva. La prendevamo in giro a sangue, ma lei rideva, ci mostrava il dito medio e continuava a giocare con noi. Poi a quattordici d’improvviso gli erano spuntati tette e sedere e aveva iniziato a uscire con vari ragazzi, mentre a noi esplodevano i brufoli in faccia e le femmine ci gettavano occhiate schifate. Da allora ci guardava con commiserazione, ma a vendicarsi non si è mai vendicata, bisogna riconoscerle la superiorità morale. «Uè, Maria Pia. Che fai qua?» «Come che faccio? Che fanno loro senza di me.» Prende la rincorsa e si butta addosso a Puccettone, che l’acchiappa al volo. Poi la bacia. «Ma no, fantastico. State insieme.» «Ma non te l’ha detto Tommaso?» «No!» «Che stronzo.» Ridono. E rido pure io. Non so perché, ma questa cosa mi rende molto felice. «Allora si inizia?» «Ma giochi pure te?» «Eccerto. Sono un’ala di tre quarti. Corro un sacco. Come sai da tutte le gare che perdevate da piccoli.» Inizia a fare un giro del parco.
Io tiro il braccio a Puccettone e regredisco improvvisamente: «Pasquà, ma ci stanno le ragazze?» Lui mi guarda con commiserazione, la stessa espressione di Maria Pia a quattordici anni. «Sì ci stanno pure le ragazze, Vincé. Siamo una squadra mista. Ci sono trenta ragazzi e dieci ragazze.» «Sì ma come fanno? Cioè qua ci si scontra, ci si mena.» «Si vede che non hai mai litigato con Maria Pia.» «Ma non sono, tipo, grosse.» «Non è che sei tanto grosso pure te, eh. Il bello del rugby è che c’è un posto per tutti. Per quello piazzato, quello alto e magro, quello basso. Senti, ti ricordi che io facevo pugilato, sì? Anche lì era misto, ma non riuscivo a colpire le ragazze che mi facevano sempre una pezza. Poi con i ragazzi abbiamo fatto sta cosa del rugby e ho visto questi omoni che non si facevano problemi a buttarsi addosso alle ragazze e loro che riuscivano a farli cadere placcandoli. E non mi sono fatto più questioni. Sanno difendersi, ti assicuro.» «Ma come è successo che avete messo su questa squadra?» «Può dirtelo lui. L’idea è stata la sua.» Guardo oltre il dito di Puccettone e lo vedo che viene verso di me sorridendo.
Ferruccio è stato il mio migliore amico dai cinque ai sedici anni. Eravamo indivisibili. Stava sempre a casa mia o andavamo al parco a cacciare lumache. A casa sua non ci andavo mai. I miei non volevano. Il padre era stato arrestato e si era preso sette anni. La madre piangeva in continuazione. Poi il fratello di Ferro si iniziò a drogare. Lui aveva quindici anni allora e diventò sempre incazzato. Intrattabile. Litigavamo continuamente e cercava di attaccare briga per ogni stronzata. Smettemmo di vederci. Poi seppi che il fratello era morto di overdose. Partii per l’università e ogni volta che chiamavo, Tommaso mi teneva aggiornato su quello che gli succedeva: aveva iniziato a farsi. Aveva rubato. Era stato arrestato. A un certo punto gli dissi di smetterla. Non ne volevo sapere più niente.
«Ferrù…» Vorrei dirgli tante cose. Che mi dispiace, è una. Che avrei dovuto capire. Che gli sarei dovuto stare vicino. Che dovevo tornare a cercarlo. «Enzo!» Mi abbraccia forte, poi mi dà dei colpi sulle spalle, «Sono fiero di te. La laurea, il lavoro. Tommaso mi ha sempre tenuto informato di tutto.» «Io…» Lui mi guarda con gli occhi cerchiati e sorridenti « Vincè, non preoccuparti. Tutta acqua passata. Poi non c’era niente di bello da dirti.»
«Avanti forza, correre. Poi in cerchio per le flessioni.» Sono arrivati tutti alla spicciolata, io sto attaccato a Ferro come alla gonna della mamma. Alcuni non li conoscevo. «Vedi quello? Stava facendo jogging al parco una mattina, Puccettò gli ha urlato: vieni ad allenarti con noi. Lui si è girato dietro, poi ha fatto: ma chi io? Ѐ un anno e mezzo che è il nostro tallonatore.» «E loro?» «Sono Abdul e Mohammed. Siamo andati a reclutare giocatori al centro di accoglienza. Hanno avuto il permesso di soggiorno l’altro ieri. » «Oh c’è Annalisa, e Corsaro! Ma che hanno?» «Ciao belli. Ciao a tutti.» «Uè ma c’è Vincenzo!» «Ma che avete? Limoni?» «Sì, limoni. Abbiamo altre due casse in macchina. Dobbiamo fare il limoncello. Chi ci dà una mano?» Prima dell’allenamento si pelano limoni. «Ti è andata bene che non era periodo di raccolta dei pomodori. Ѐ tremendo.» «Ma Annalisa non era laureata in matematica? E Corsaro faceva lettere.» Annalisa ride. «Non si combinava molto. E c’erano queste terre di mio nonno a Giovi. Abbiamo detto, ma chi ce lo fa fare. E siamo andati a coltivare la terra. Loro ci aiutano coi lavori. Attento a non pelare la parte bianca. Abbiamo tanti progetti belli. Devi passare a vedere una volta.» «Non andare. Ti mettono a raccogliere patate.» «Ok, basta così. Iniziamo l’allenamento.» «Acchiappa a Ferruccio, è già partito.» «Vado a mettere i limoni in macchina. Mi aiuti?» Accompagno Annalisa all’auto. «Era eccitatissimo che venissi a giocare con noi. Anche se non lo fa vedere. » «Pasquale mi ha detto che l’idea della squadra è stata sua.» «Ah, non la sai la storia?» «No.» «Beh, te la devi far raccontare da lui.» «Annalì, in che ruolo gioca Ferruccio?» «Ѐ il numero 8.» «Che fa di particolare l’8?» «Diciamo che è importante nella mischia, è quello che è dietro a tutti, all’ultimo, ma dà la spinta agli altri. Se non ci fosse lui a controllare, a incanalare la forza, a dare la palla al mediano, gli altri non saprebbero cosa fare.»
***
I tre giocatori davanti si allacciano per le braccia, ai lati ci sono i piloni, che reggono gli urti e sostengono la mischia, al centro il tallonatore che cerca di uncinare il pallone coi piedi, prima degli avversari, e spingerlo indietro verso i suoi. I due di dietro incastrano le teste sotto i fianchi di quelli davanti e si fanno compatti grazie agli altri due dell’ultima fila che incrociano le braccia e tengono la testa all’esterno della fila davanti. Questa struttura fa sì che la forza degli otto corpi venga potenziata e incanalata nella spinta che gli impone il numero otto da dietro. La stretta che li unisce fa in modo che quei corpi diventino un corpo solo che ha la potenza di tutti. Ma solo se sono legati bene e se si sostengono gli uni con gli altri questa cosa funziona, altrimenti si disfa e l’energia si disperde.
«BASSI, TOCCO, VIA!» Siamo al secondo giro di birre. Abbiamo brindato a noi, alle docce, a Tommaso, alla Prof. Scarrapieco, alle tette di Annalisa quando era in terza media e alla vittoria del prossimo 14 settembre. «Io però con quelli non lo so se lo faccio il terzo tempo.» «Il terzo tempo è un obbligo morale.» « Ma che obbligo e obbligo. Ѐ la parte migliore.» «Ragà, ma che cazzo è sto terzo tempo. Non avevate detto che erano due?» Corsaro mi spiega: «Dopo le partite si va sempre a bere insieme agli avversari. Quello è il terzo tempo.» «Ma come a bere? Con loro?» «Eccerto, dopo essersi menati per un’ora e venti, è l’unica cosa che resta da fare.»
Ferruccio è uscito a fumare e mi ha chiesto di accompagnarlo. Mi sento bene dove sto, come non mi succedeva da anni. «Ferrù, come ti è venuto di fare sta squadra?» Lui mi guarda e soffia il fumo. «Così, tre anni fa stavo in comunità e ci facevano fare dei laboratori. Era ottobre, tipo. In uno venivano degli allenatori a spiegarci vari sport e io sentii questo che parlava delle regole del rugby. Un bel casino, ma intrigante. E in qualche modo familiare. Nel senso che quelle regole un po’ te le senti dentro, non è proprio apprenderle da fuori, ma riconoscerle in te, nelle tue reazioni, hai presente?» «No, veramente.» «Ti faccio l’esempio che mi ha colpito quel giorno: quando il giocatore che ha la palla cade, quello che deve fare, che gli viene istintivo fare, è proteggere la palla. E i compagni della sua squadra che lo vedono…» «Gli si buttano addosso!» «Sì, bravo, gli si buttano addosso. Per proteggerlo e per permettergli di salvare la palla. Capisci? Gli fanno da schermo, lo coprono per proteggerlo dagli avversari.» Rifletto un attimo. «Ferro, ma tre anni fa era quando Tommaso è uscito dall’ospedale, dopo che si era tolto il primo tumore.»
***
Hanno sospeso la chemio a Tommaso. Lui sta peggio. Ma non gli faceva più effetto. Hanno detto che gli avrebbero dato solo cure palliative. «Mi ero scocciato di andare all’ospedale. Meglio così.» Gli ho raccontato l’ultimo allenamento, di come ho trasformato la touche in maul e lui mi ha detto di farmi spiegare il rolling da Pasquale. Mancano dieci giorni alla partita e ci stiamo allenando praticamente ogni sera e poi stiamo insieme fino a tardi. A parte Cristiano che la mattina alle 4 deve andare al mercato. Ѐ come non averli mai lasciati. Ma non è essere tornato indietro. O forse sì, ma è tornare indietro per andare avanti. «Adesso parli come un vero rugbista.» «Ti salutano tutti. Ferro mi ha detto di chiamarti capocchiò, così ti incazzavi.» Tommaso ride. «Vogliono sapere se vieni alla partita.» Lo sguardo di Tommaso sembra incrinarsi un attimo, ma forse no. Forse è una mia impressione, «Dì a tutti che ci vediamo nel terzo tempo.»

Giovanna Stanzione





domenica 3 settembre 2017

VITA, ASCESA E DECLINO, ANCORA ASCESA E DI NUOVO DECLINO DELL’ILLUSTRISSIMO PROF. ROLANDO CADORNO

L’illustrissimo professor Rolando Cadorno nacque nelle Marche, in un paese di 15.000 anime, quando ancora la sera si riunivano tutti nei bar per vedere la televisione.
Era un bambino gracile e giallognolo e, per quanti sforzi facessero i genitori, non gli si poteva far fare assolutamente nulla.
Per diciotto anni della sua vita si limitò a vivere l’essenziale come quelle zecche che restano immobili attaccate a un muro aspettando il momento buono per lasciarsi cadere su un cane di passaggio.
Il momento buono arrivò nel settembre del 1963 quando, sbalordendo tutti, il giovane Rolando superò i test d’ingresso della Facoltà di Giurisprudenza della città, arrivando primo in graduatoria.
Farò il magistrato – disse ai genitori che lo guardavano come uno sconosciuto. Era la prima volta che mostrava di sapere che esistesse il tempo futuro.
Andò a vivere da solo nella grande città universitaria e letteralmente scomparve, ingoiato dai codici e dai manuali.
Riemerse quattro anni dopo un po’ più giallo e con una pergamena di laurea del suo stesso colore stretta in mano.
Vinse il concorso di magistratura e iniziò la sua ascesa nell’ordine giudiziario.
Divenne noto, ben presto e suo malgrado, per essere un giudice rivoluzionario.
Erano gli anni in cui un pugno di gente levava un gran polverone mettendo ogni cosa in discussione. Il sistema giudiziario era perennemente sotto attacco e, se esplodevano le bombe di tanto in tanto nelle piazze e nelle stazioni, sistematicamente i giudici venivano falciati fuori dai tribunali.
Mentre molti dei suoi colleghi davano le dimissioni, riparavano all’estero o resistevano coraggiosamente, il giovane giudice Cadorno non faceva nessuna di queste cose.
Semplicemente continuava il suo lavoro come aveva sempre fatto, passando in mezzo alle sventagliate di proiettili come in mezzo allo sferragliare dei tram.
Entrava nella sua aula e dava le sue sentenze senza badare né alle blandizie degli avvocati né agli insulti dei bombaroli.
Si fece così la fama di coraggioso, giusto, incorruttibile.
Quando i giornalisti presero a intervistarlo e gli chiedevano se pensasse che i brigadisti dovessero difendersi da soli, rifiutando gli avvocati, rispondeva pensoso: perché no?
Quando gli domandavano a chi dovessero appartenere i diritti civili, rispondeva: a chi li vuole.
Divenne così il paladino dei progressisti e dei garantisti e il simbolo delle lotte per l’autodifesa in tribunale e la cittadinanza universale.
Si ritrovò iscritto al PCI, per volontà dello stesso Berlinguer, e alla Magistratura democratica.
Lo portavano sui palchi e quando iniziava a parlare si faceva sempre un silenzio di tomba, anche perché aveva un tono di voce talmente flebile che nessuno riusciva effettivamente a capire cosa dicesse. Anche i più feroci e arrabbiati oppositori politici che lo affrontavano nei dibattiti, dopo un po’ tacevano spiazzati, perché sembrava che stessero litigando con sé stessi.
Quando i tempi andarono poco a poco calmandosi e nessuno più ammazzava i giudici fuor dai propri desideri, Cadorno lasciò così, come era arrivato, la carriera giudiziaria. Pur di non perderlo, allora, lo fecero professore onorario e lo misero su una cattedra all’Università.
Nel suo scranno da professore, il giudice Rolando Cadorno finì poco a poco nel dimenticatoio pubblico. La cosa non parve turbarlo. 
Gli studenti lo imitavano nei corridoi chiamandolo Professor Cadavere, i colleghi lo ignoravano e la politica sembrava aver deciso di fare a meno di lui. La stella dell’esimio prof. Cadorno sembrava esauritasi in sé stessa, e tutti si comportavano come se fosse stata una svista, una cosa un po’ imbarazzante che aveva accomunato tutti su cui si doveva tacere.
Il prof. Cadorno continuava a insegnare e a scrivere libri.
Per una strana catena di eventi, spiegabile solo con l’insondabilità dei meccanismi editoriali, i libri del professor Cadorno, che in Italia non leggevano neppure i suoi studenti, finirono tradotti in spagnolo e venduti a man bassa nelle università del piccolo ma turbolento Stato sudamericano del Benedicto.
In capo a una decina d’anni non c’era nessun studente di diritto in Benedicto che non conoscesse il nome dell’Illustre professor Cadorno. Era diventato il simbolo e l’archetipo del grande diritto occidentale che – partendo dai gloriosi giuristi latini, Cicerone, Gaio e Giustiniano, passando per i glossatori medievali e i grandi illuministi settecenteschi – si era convogliato tutto in quel piccolo uomo.
Allora accadde che in Benedicto venne indetto un concorso con in palio una borsa di studio che prevedeva un breve viaggio in Europa, a vincerlo fu Josè Eduardo Pinilla, giovane appassionato ricercatore. Il giovane appassionato benedictino era allora volato in Italia per andare a conoscere il grande professor Rolando Cadorno e invitarlo a onorare il loro Paese con la sua presenza. Avrebbero voluto mandare un ambasciatore a farlo, ma il governo era caduto l’ennesima volta e ogni volta che succedeva si cambiavano costituzione e tutti i rappresentati ufficiali dello Stato. Alle volte non avevano neanche il tempo di togliere le vecchie targhette d’ottone dalle porte degli uffici.
Il giovane appassionato José Eduardo ebbe un primo momento di scoramento quando, facendo tappa nelle varie università italiane, gli studenti e i professori con cui chiacchierava mostravano di conoscere poco e niente il grande professore. Era perfino pressoché impossibile trovare le sue opere nelle biblioteche. Il secondo, quando, arrivato nella sua università della Città grande, s’imbatté in un professore che si riferì a Cadorno in questi termini: lombrico inesistente, emerito cretino, ameba addormentata. Sebbene turbata da questi eventi, la sua fede non ne fu scalfita. Pensò che fossero dovuti alla modestia del grande professore, che preferiva restare nell’anonimato, nel primo caso; e ad errori di comprensione dovuti al suo scarsissimo italiano, nel secondo.
Quando giunse tremante al cospetto del Professore quasi svenne quando al suo elaborato invito, che si era ripetuto in testa più volte nel viaggio in aereo e poi in treno, l’illustre Maestro rispose, scrollando le spalle: se lo desiderate.
Partirono insieme per il Benedicto una settimana dopo, il tempo di ottenere tutti i visti e i timbri sul passaporto.
All’arrivo dell’aereo nella capitale, già lo aspettava una folla di gente e la banda universitaria. I professori erano vestiti in gran pompa e il Rettore indossava l’ermellino.
Avevano organizzato per il Professore una serie di sue conferenze in varie università del Paese. Dapprima si svolsero nelle aule ad anfiteatro, poi nelle grandi aule magne. Alla fine le spostarono nei teatri cittadini. Tanta era la folla, non più fatta di soli studenti, che voleva ascoltarlo o anche solo vederlo per un momento. Vennero messi i maxischermi fuori delle piazze e certe grosse casse acustiche alte come un bambino di dodici anni.
L’eccitazione diffusa poteva paragonarsi solo a quella di una visita del papa o di una rock star inglese.
Inevitabilmente sfociò in una nuova rivoluzione, cadde il governo, si volle cambiare ancora una volta la costituzione. Si decise all’unanimità che a scriverla fosse l’illustrissimo Prof. Rolando Cadorno e così avvenne.
La Costituzione Cadorno fece scalpore anche fuori dal Benedicto, era qualcosa di mai tentato prima: veniva stabilito il suffragio universale con la maturità ai sedici anni di età, veniva eliminato l’ergastolo e introdotta la possibilità di difendersi da soli in tribunale. Ma soprattutto venne sancita la cittadinanza universale. Chiunque arrivasse in Benedicto godeva automaticamente dei diritti civili benedictini – niente controlli niente frontiere niente dazi – potevano votare, potevano ricevere i sussidi e la pensione e accedere alle cariche politiche, per il solo fatto di essere sul suolo dello Stato.
Il Benedicto venne celebrato come un’utopia, un sogno moderno, avanzato e democratico, il mondo nuovo.
All’aeroporto, i più grandi onori vennero tributati al Prof. Cadorno quando ripartì. Baciò bambini e belle ragazze in costume tipico, gli consegnarono una medaglia ad onore e le chiavi del municipio, lo pregarono di rimanere e rivestire la carica di Presidente della Repubblica, lui ringraziò e poi chiese a che ora partiva il suo aereo. Lo interpretarono come un gentile ma netto rifiuto.
Non lo sentirono più per cinque anni. Anni in cui il Benedicto, a causa del suo sistema giudiziario fortemente permissivo e mite, all’assenza di frontiere e dazi, alla cittadinanza universale e la possibilità data a chiunque di ricoprire cariche politiche, divenne il paese con la criminalità più alta di tutti i tempi, il fulcro del traffico di cocaina del Sudamerica, il centro del riciclaggio di denaro sporco e la roccaforte politica dei Signori della droga. Le persone presero a maledire a mezza bocca, poi sempre più forte, il nome di Rolando Cadorno, poi non ce la si fece più. Scoppiò la rivoluzione, il governo malavitoso e corrotto venne rovesciato, la costituzione cadorniana venne abbandonata con disonore e nessuno ne volle mai più parlare. Venne revocata la cittadinanza e l’onorificenza tributata al professore italiano e fu vietata la distribuzione e lo studio dei suoi libri.
Di tutto questo il vecchio professore non ne fece conto o forse non ne seppe veramente nulla. Aveva ormai superato gli ottant’anni e continuava a vivere così come sempre aveva vissuto. 
Morì poco dopo nel suo letto con la sua espressione solita e il colorito della pelle che da giallo era diventato un avorio fragile e stinto.
Nessuno oggi mostra di ricordare il suo nome o quanto nella sua vita abbia realizzato. Rimango io solo a dare testimonianza della sua esistenza straordinaria.

La Gonda, Benedicto, 3 marzo 2025,
Prof. José Eduardo Pinilla.


domenica 14 maggio 2017

Spero di non innamorarmi di te


Omaggio a T.W.

Ti sei alzato appena, ho gli occhi chiusi e non ti guardo. Avverto il vuoto di te nel letto che per una minuscola porzione di secondo non ha fatto a tempo a cancellare la tua forma. Li apro e cerco le sigarette. Non è necessario che ti veda, so dove stai andando. E il fatto di saperlo così bene mi sgomenta. Stai mettendo il caffè sul fornello, poi tra un minuto sentirò l’acqua della doccia scrosciare in bagno. Non voglio innamorarmi di te. L’ho pensato dalla prima sera che ti dissi di provarci con me. Tu eri lì da sempre. Con il cuore uguale a sè stesso a sedici a venti a trent’anni. Io non so neanche chi sia me e cosa devo farne.
Non volevo innamorarmi di te. Ma la sera della festa avevi quella parrucca bionda da donna e mi è sembrato un segno. Una bandiera di benvenuto issata sulla tua vita rigorosa e tranquilla. Mi diceva che c’era posto anche per me, pazza com’ero. Bionda – ti ho detto – trova una scusa per tuo marito e vieni da me stanotte. Sei venuto. Ma non mi hai chiesto di innamorarmi di te.
Non sono brava a capire i sentimenti. Non i miei. Ti ho messo alla porta un centinaio di volte. Tu mi guardavi con quegli occhi pieni di casa con giardino e bambini e messa della domenica. E io non volevo assolutamente innamorarmi di te.
Le sigarette non sono da nessuna parte. Me le hai nascoste di nuovo. Prima mi avrebbe preso uno dei miei scoppi di ferocia, ora mi viene da sorridere. Sono nella stessa posizione in cui ti sei sollevato da me. Ti piace guardarmi mentre mi masturbi. Ti metti lì ad accarezzarmi con concentrazione, attraverso la tua mano sai prima di me quando sto per venire. Come fai, ti ho chiesto una volta. Io sento tutto quello che senti tu, mi hai detto.
Entra in camera l’odore acido del caffè, ma non mi va di alzarmi a spegnere il fuoco. Voglio vederti rientrare nel tuo accappatoio azzurro e spiare le forme del tuo corpo tra le pieghe. Voglio vedere come i tuoi capelli bagnati restano su come piume stropicciate, quando ci passi il cappuccio. Voglio vedere il modo ordinato in cui pieghi via le tue cose e le metti al loro posto. Forse un giorno odierò questi gesti uno a uno. Forse mi irriterò entrando dopo di te in bagno e trovandolo intriso di vapore umido. Forse non sopporterò il modo in cui mastichi e perfino il tuo modo di guardarmi. Forse sei solo uno dei milioni di esseri umani di questa terra e non posso pensare che tutti i miei baci dovranno essere per te solo e i desideri della mia vita confusi con i tuoi. Questi i miei forse infiniti, di cui ho bisogno per andare avanti.
E però è successo che ho bisogno di te quando mi prende il panico davanti a quell’indefinito. Ho bisogno dell’appiglio del tuo corpo e delle tue parole che hanno la stessa ferma consistenza, ho bisogno che mi continui a guardare come mi guardi, anche quando poi sarò diversa, con quello sguardo largo e caldo che mi fa sentire piene le mani.
Guardo la porta, aspettando di vederti, e so di essermi innamorata di te.

sabato 18 febbraio 2017

Due incontri

Una notte non riuscivo a dormire. Avevo undici anni. Mi alzai dal letto e scesi al piano di sotto, dov’era il soggiorno. Lì c’era mia madre, ancora sveglia, acciambellata sul divano, in un angolo davanti al televisore. Piangeva. Non avevo ancora mai visto mia madre piangere. Guardava il televisore e piangeva, non si era accorta che la stavo fissando. Distolsi lo sguardo da lei e vidi quello che stava guardando. C’era un uomo sullo schermo, era nel mezzo di un palco, seduto con una gamba accavallata sull’altra, teneva una chitarra in braccio e la suonava sfregandola piano, cantava ad occhi chiusi. Era circondato da una decina di musicisti, davanti aveva centinaia di persone. Ma era come fosse solo al mondo. Quella fu la prima volta che vidi Fabrizio De Andrè.
Era l’11 gennaio del 1999, i telegiornali avevano annunciato la sua morte di cancro ai polmoni, a nemmeno sessant’anni, la rai in seconda serata mandava in onda le riprese del suo ultimo concerto. Mia madre piangeva.
La storia di mia madre e Fabrizio De Andrè era iniziata molti anni prima. Era il 1964, De Andrè aveva ventiquattro anni, ed era pressocchè sconosciuto, mia madre diciannove. Mia madre viveva a Torre Maggiore, un minuscolo paesino dell’entroterra pugliese, lì le novità arrivavano di solito portate dai fuoriusciti, i paesani emigrati che tornavano a casa per le feste. Tra questi, un ragazzo con cui lei e le sue sorelle avevano giocato da bambine. Questo ragazzo e la sua famiglia si erano trasferiti al nord, quando tornavano avevano tutti intorno. Uno di quei giorni inforcò la chitarra e prese a suonare. Cantava una canzone dolcissima e immensamente triste, parlava di una ragazza, Marinella, che era scivolata in un fiume e annegata, dopo aver passato la prima e unica notte d’amore con l’uomo della sua vita. Lui, appresa la notizia della sua morte, non voleva crederci ed era tornato a cercarla ogni notte alla sua porta. Era qualcosa di totalmente nuovo.
Se guardate i filmati di quell’anno, c’è questo ragazzetto smilzo e poi la sua voce. Infinita, profonda, pulita, in nulla impostata, con le sfumature roche e tremanti. Raccontava la canzone, poi lo si seppe, di un fatto di cronaca che riguardava una prostituta che era morta annegata. Ne faceva la regina di una storia bella, delicata e struggente. Era un monumento inaspettato alla sua piccola vita e alla sua piccola morte. Temi questi che non erano ancora mai entrati nelle canzoni dell’epoca.
Il ragazzo che era tornato dal nord nel piccolo paesino della Puglia aveva dichiarato con convinzione di aver composto lui quella canzone. Quella fu la prima volta che mia madre ascoltò una canzone di Fabrizio De Andrè.
Quando fu svelato l’inganno, mia madre corse a procurarsi il 45 giri. Quattro anni dopo, nel 1968, uscì il suo primo album circolare –Tutti morimmo a stento – che da ragazza sentiva e risentiva tutto il giorno chiusa nella sua stanza. Parlava di drogati, di donne stuprate da uomini dabbene, di suicidi accolti in paradiso, di guerra sporca e di criminali impiccati che sputavano maledizioni sui loro aguzzini. Ad un certo punto suo padre, mio nonno, non ce la fece più. Prese il 45 giri, lo ruppe in due metà davanti ai suoi occhi e le ordinò di uscire a far prendere aria alla testa e di non ascoltarlo mai più.
Io, dopo quella prima volta ad undici anni, chiesi a mia madre di poter ascoltare quell’uomo che l’aveva fatta piangere. Sentimmo, per molti anni, due raccolte di canzoni, che conservo ancora in cassetta. C’erano La canzone di Marinella, Bocca di Rosa, Andrea, Il fiume Sand-Creek, Il testamento di Tito e altre.
Prostitute, omosessuali, emarginati, criminali, uomini persi, uomini dimenticati, esiliati della vita.
Ogni canzone mi rapiva la mente, iniziavo a farmi molte domande, ma non mi importavano le risposte, mi importava che quella voce continuasse e continuasse a farmi venire in testa centinaia di domande e cose a cui non avevo mai pensato nella mia esistenza.
Le canzoni di De Andrè furono, credo, la prima letteratura della mia vita. Forse quello che accese la mia sete infinita di parole e di storie. 
Consumai quelle cassette fino ai quindici anni. A quel punto io e mia sorella ricevemmo in regalo dai miei genitori il cofanetto completo dei suoi album. Fu un periodo di scoperte ininterrotte. Non ricordo nella mia vita un anno così pieno di stupore e bellezza e dubbi e dolore e malinconia e rabbia.
Volume uno e Tutti morimmo a stento mi insegnarono la pietà; La buona novella, il sentimento religioso, la spiritualità intima di un cristianesimo umano e disarmato, non per forza liturgico, non per forza condiviso; Storia di un impiegato mi insegnò la rabbia e l’impotenza, la cattiveria corrosiva del potere; Non al denaro non all’amore né al cielo mi insegnò la bellezza della miseria umana; Anime Salve, la necessità di appartenere ai pochi, ai diversi, a quelli che rifiutano le verità troppo semplici o troppo evidenti.
De Andrè, con quella sua voce profonda di occhi chiusi che guardavano dentro, a quindici anni mi insegnò qualcosa di molto complesso e ripugnante e struggente e bello, che un po’ forse è la vita.

venerdì 3 febbraio 2017

Clerici vagantes. Ai giovani perduti dell'Accademia

Clerici vagantes

Portami a casa.
 Cos’è casa?
Casa è il posto dove te ne puoi stare dentro te stesso
 senza che nessuno tenti di cavartene fuori e mandarti via.
Lo sai che non posso.
Perché?
Perché sei morto e di tuo non ho neanche il corpo.
Per Giulio Regeni

A chi apparteniamo? Allo Stato? Alla società? Alla famiglia? Alle “formazioni sociali che permettono il pieno sviluppo della nostra personalità”?
Niente ci appartiene e quindi non apparteniamo a niente. Non abbiamo più crediti verso nessuno. Tutti ci devono qualcosa. Qualcosa che, forse non volendolo, ci hanno sottratto.
Siamo un popolo di senza patria e senza radici. Un popolo apolide e sotterraneo che si incontra, si perde, si ritrova, si riconosce. Sosta e poi riparte. Riparte desiderando sostare. Cosa cerca? Un posto da chiamare casa. Ma chi l’ha persa la casa ce l’ha stampata dentro e nessun’altra può adattarsi alla sua forma.
Siamo i profughi del sapere, i nuovi chierici vaganti con gli zaini strappati e gli affitti stanchi. Siamo dottorandi, assegnisti, post-doc, ricercatori. Siamo le generazioni perdute dell’accademia, quelle che la desidereranno per tutta la vita e non potranno che girarle affannosamente intorno come scarni cani affamati.
Il mondo ha rinunciato a noi. Centinaia, migliaia di menti lasciate fuori. Che cosa avremmo potuto dargli? Non lo sapremo mai. Che cosa ha perso l’umanità futura? Non possiamo immaginarlo.
Se c’è un disegno del fato nelle cose umane, il fato ha scelto di non scrivere lì col nostro inchiostro. Siamo punti muti, pagine bianche. Non lasceremo nulla su quella traccia.
Diventeremo avvocati, bancari, impiegati aziendali. Nessuno ci restituirà i mezzi per mettere a frutto le nostre intuizioni. Le idee che forse un qualche dio illuminato aveva inserito in nuce nella nostra testa, nostra e di nessun altro, seccheranno morte e friabili sul ramo secco delle nostre vite di ripiego.
Ma noi intanto vaghiamo, come un popolo senza patria, alla ricerca di chi ci dica “resta”. Ma raramente accade. Il nostro destino è il movimento e noi siamo il movimento del mondo.
Ma è un mondo sempre più chiuso, ci si stringe intorno alle caviglie. Alzano muri e barriere di tutti i tipi, materiali e immateriali, fatte di stabilità negata o visti sottratti. Muri trasparenti di appropriazione e conservazione.
Ci negate l’accesso al vostro mondo, noi siamo gli straccioni dell’anima, gli accattoni della cultura. Come se non vi servissimo.
Come se non vi servisse quello che abbiamo noi, che è unico e nessuno tornerà a portarvelo.
A volte moriamo. Perché è un mondo incattivito quello in cui ci fate girare. L’avete imbizzarrito voi. Ma voi non dovete più viaggiare. Lo facciamo noi al vostro posto, i manovali della sapienza.
C’è sempre uno di noi che crepa quando succede qualcosa di brutto, un attentato un incidente. Perché noi siamo sparsi ovunque, come manciate di sale sulla strada per evitare che ghiacci.
Dovevamo essere nodi e raccordi, dovevamo avvicinare e unire. E invece non siamo che dei rinnegati. Dei rifiutati. E ci portiamo in cuore il senso dell’abbandono che è un buco nero. Come fa ad unire uno che ha il buco nero in corpo?
Dateci una casa. Fateci entrare. Fateci entrare col camino spento. Il fuoco lo portiamo noi.

domenica 22 gennaio 2017

L'ultimo ospite

“Una valanga… sì, l’hotel Santa Lucia… sì, aspettiamo rinforzi, d’accordo.”
L’ultimo ospite giunge inatteso, ad un’ora imprevista del pomeriggio.
“Sono bloccati dalle tre di questo pomeriggio. Abbiamo ricevuto l’allarme da uno dei superstiti. Vi terremo aggiornati sull’evoluzione dei soccorsi”.
L’ultimo ospite non ha prenotazione, non ha di che pagare ma tutti gli gridano tra le lacrime che paghi. O che qualcuno paghi per lui.
“Porca puttana. Si è ribaltato il gatto delle nevi. Non riusciamo a intervenire al momento. Quante? Venti. Forse più. Manda gente, cazzo”.
Non conosce nessuno, ma spia nelle camere di tutti. Abbatte le porte, sfonda i soffitti.
“Ho ricevuto questa chiamata due ore fa. Piangeva. Diceva mia moglie e i miei figli sono lì dentro. Ho dato l’allarme. Non mi hanno creduto”.
L’ultimo ospite è quello inatteso, che non si fa ignorare.
Porta silenzio, dopo molto rumore. Porta assenza, dopo molto colore.
Non c’è che lui ormai e non esiste più un fuori e un dentro, perché fuori e dentro si sono incontrati e fusi. E quello che era fuori è sprofondato dentro e quello che era dentro è dilaniato e aperto.
L’ultimo ospite ha scacciato il vuoto. Perché con lui non esiste spazio che non possa essere riempito. Ha sconfitto l’esterno, perché non si vede più niente, niente più si sente al di là di lui.
“Come potete vedere l’hotel è interamente sepolto. Quello che emerge, una volta era il tetto. Ci riferiscono che molti degli ospiti si potrebbero essere rifugiati ai piani interrati. Sembra una nave affondata”.
L’ultimo ospite grava pesante sui piani inferiori. E’ diventato soffitto, pareti, panorama e cielo.
L’ultimo ospite ghiaccia l’aria nei polmoni, ma di aria ne rimane poi ancora poca ed è un sollievo.
Lui è freddo e attesa e silenzio.
L’ultimo ospite ha cantato ai bambini una ninnananna di rombi sonori e di suoni cupi, fino al sonno. Poi ha tirato con cura sui loro corpi una spessa coperta di ghiaccio.
“Ci sono mia madre e mio padre lì dentro! Lui era andato in pensione. La prima vacanza dopo tanto tempo.”
L’ultimo ospite si è intromesso tra marito e moglie, ha appianato tutti gli screzi che duravano da anni.
L’ultimo ospite ha scaraventato il cameriere tra le braccia della proprietaria, un abbraccio che entrambi aspettavano da tanto, ma non pensavano che così sarebbe stato.
L’ultimo ospite spinge a lacrime, rimpianti e confessioni.
Volevo vederti crescere. Volevo toccarti ancora. Avrei voluto vivere meglio. Vorrei che tu non fossi qui.
Se solo lo avessi fatto. Se solo non fossi venuto.
L’ultimo ospite tutte le ascolta, le assorbe e le trasforma in silenzio, sempre più prossimo sempre più stanco.
“Quello che vi possiamo promettere è che faremo tutto il possibile in questa situazione”.
L’ultimo ospite ormai conosce tutti.
Ha visto il cuoco scavargli la faccia con le mani, furiosamente, fino a che non riusciva più a chiudere i pugni e le dita sembravano cadergli.
Ha visto l’uomo vecchio piangere sul corpo ancora caldo del suo cane, come fosse l’unica cosa che ancora contasse.
Ha visto l’uomo bugiardo confessare la sua lunga vita a una moglie commossa, commossi entrambi di scoprire di amarsi.
Ha visto la ragazza realizzare che non avrà più un futuro per cui doversi preoccupare e sentirsi improvvisamente senza niente.
Ha visto la receptionist mettere a posto le ultime carte lentamente anche se era il suo volto bianco l’unico interlocutore che ormai aveva davanti.
Ha visto cose brutte del cuore degli uomini e cose bellissime troppo strazianti per poterne parlare.
“Per questa notte dobbiamo interrompere gli scavi, c’è rischio di una nuova slavina”.
L’ultimo ospite è rimasto fino a notte. E rimarrà fino a che ne avrà voglia.
“Non pensiamo possano esserci superstiti”.
Ora tutto tace nel dentrofuori. I sussurri, i singhiozzi e le urla.
Nessuno più entra, nessuno più esce.
L’hotel è al completo.

giovedì 12 gennaio 2017

La scrittura è un aereo esploso

Mi hanno chiesto chi fossi. Io ho risposto: quando?
Sono e sono stata moltissime cose. Ma non ho capito ancora chi è me. Mi sento il luogo di approdo di molti esseri di passaggio e mi diverto ad accoglierli e salutarli. Ogni tanto dimenticano qualcosa che tengo lì, per loro. Sono contenta se tornano a riprenderselo e soggiornano ancora un po’.
Ho conosciuto uomini e donne nella mia strada. Alcuni sono rimasti sempre prepotentemente loro stessi, ma la maggior parte di loro, invece, era cangiante e li vedevo evolversi e mutare ad ogni passo.
C’è un ordine e un insieme in questo cambiamento. Noi siamo l’insieme che contiene i nostri cambiamenti. Alcuni insiemi esplodono, difficile rattoppare un insieme esploso. Lungo, faticoso, doloroso. Ma si può fare. Solo che raramente conterrà di nuovo qualcosa di quello che era in lui quando è esploso.
 Di queste anime esplose io sento l’odore, il puzzo di bruciato che si portano dietro. Ma anche la forza, una forza febbrile, di chi ha superato un tabù e gli è esplosa pure la paura.
Di queste anime da tabula rasa io ho profondo rispetto, compiono manualmente e coscienziosamente un processo che alla maggior parte degli esseri umani l’esperienza e la vita hanno realizzato dentro all’insaputa di loro, con un lavorio cieco e sotterraneo. 
Io non esplodo. La mia anima procede per accumulazione. Il sistema razionale del mio insieme è crollato molto tempo fa. Lo immagino come una di quelle case dei vecchi, dove le cose si accumulano anno per anno, raccolte da loro stessi o portate dalle persone e dalla vita, e però non si ha più la forza né la voglia di sistemarle e catalogarle, tenerle o gettarle. Ti circondano e ti fanno compagnia, ci riconosci tante diverse fasi della tua esistenza, ma rendono l’aria pesante, ogni cosa pesante. E dopo un po’ tutto odora di polvere e di legno vecchio.
A volte vorrei che il mio insieme esplodesse e tutto volasse via fuori, come da un finestrino rotto di un aereo in volo. Vorrei che passasse aria, tanta aria, e vorrei guardare le cose della mia anima franate sul terreno di sotto, sparse pezzo pezzo su tutto il cammino, mentre io avanzo leggera e più sono leggera e più acquisto velocità.
Se non fosse che temo la depressurizzazione e lo scompenso singultoso che provocherebbe questa esplosione.
 Se non fosse che poi sarei vuota all’improvviso e il vuoto mi fa paura.
E allora ho pensato di regalare queste cose. Regalarle a tutti. A chi vuole. Poco alla volta, dedicando il giusto tempo ad ognuna, tenendo nella testa un’ultima volta il ricordo e le sensazioni che portano con sé, come un sorso di vino che si trattiene un momento in bocca prima di lasciarlo cadere in gola.

Forse quello che faccio con la scrittura è proprio questo: un lavoro di svuotamento, per fare cambiare aria, per fare spazio alle cose nuove.

lunedì 9 gennaio 2017

Egregio Signor Giuseppe Tomasi, via Butera, 28 – Palermo




Egregio Signor Giuseppe Tomasi, via Butera, 28 – Palermo

E’ vero, ho rifiutato il tuo libro. Ho rifiutato Il gattopardo e Don Fabrizio Salina. E te. Soprattutto te. Come potevo fare altrimenti, dimmi? Come potevo io, da Siciliano, non rifiutare tutto quello che andavi dicendo sui Siciliani? Tutto quello che volevo che cambiasse. Che tutto cambiasse. E che invece tu condannavi all’ ineluttabilità dell’eternità?
E’ vero, non ho detto che il libro fosse brutto. Era incompleto. Mancava un finale diverso. Perché tu non eri in grado di concepirne uno. Tu che eri convinto che le forze eterne, immutabili, inesauste che scorrevano negli uomini, scorressero sempre e comunque nel sangue di tutte le epoche, di tutti i siciliani, di tutti gli italiani, rendendogli le vene pesanti come piombo. Tu che stavi morendo e sentivi il tuo fluido vitale seccarsi, anzi gocciolare via in granelli. Come potevi tu credere che potesse essere fatto qualcosa di diverso? Serviva troppa energia vitale per farlo. E tu non ne avevi quasi più. Ma del resto non ne avevi avuta neanche quando la tua morte era ancora lontana. Tu vivevi da sempre con un piede nella morte. 
Non ho detto che il tuo libro era insincero. Anzi, ti ho scritto che era serio e onesto. Onesto senz’altro. Avevi capito il popolo siciliano. Sapevo che avevi capito. Ma non era quello attuale. Non doveva essere quello attuale. E’ un po’ vecchiotto, ti ho detto. Vecchio. Sembra uno di quei libri dell’ottocento. 
Te l’avevo già rimandato indietro, l’anno precedente, quando ero in Mondadori. Bello era bello. Lo avevo detto anche all’editore. Ma era incompleto. Mancava qualcosa. Aggiungilo e poi rimandacelo qui. Me lo hai rimandato. A me. Anche se lavoravo, l’anno dopo, in Einaudi. Mite, riflessivo, profondamente consapevole, di una sapienza antica e di una pazienza secolare, avevi ripreso su la penna e avevi aggiunto due capitoli. Ma non avevi capito. Forse sei morto, un anno e due giorni più tardi, senza capire mai. Senza capire il mio rifiuto. 
Mancava qualcosa nel tuo romanzo. Il finale, hai pensato. No. Mancava il futuro. Mancava il tempo. Tu non credi in nessuno dei due. Tu sei come una divinità vecchia e stanca, vedi tutto, ma lo vedi dall’inconclusività della tua eternità. Lo vedi eterno. Ti sei dimenticato il tempo. Tu hai scritto di quello che sempre rimane immutato nell’animo dell’uomo dopo duecento come dopo duemila anni. Non credi al tempo. 
Ma perché? Credi davvero che tra duemila anni prima e ora l’uomo non sia mutato affatto? No, forse lui no. Ma la sua vita non credi sia mutata? 
E’ in questi piccoli mutamenti di vita che dobbiamo credere. Vogliamo credere. Altrimenti nulla sarebbe mai meglio e tutto peggio, come nel mondo dei tuoi Sedara. 
Mi hanno accusato di averti respinto per motivi politici. No, non è vero. Ti ho respinto per motivi umani. Perché avevo pietà degli uomini, perché tengo a loro. Anche tu avevi pietà degli uomini ma non tenevi a loro. Non tenevi neanche a te stesso. Ti facevano però compassione. Li guardavi nel tuo libro come qualcosa di bellissimo e straziante, come un cucciolo di cane morto sulla strada. Qualcosa di puro ma di irreparabilmente corrotto, perché destinato alla decomposizione. Già in decomposizione. 
Il tuo libro è bello. Di una bellezza terribile e inumana. I tuoi luoghi polverosi e sabbiosi, i tuoi uomini stanchi e condannati, i tuoi arazzi e tappeti e cannocchiali che puntano sempre al cielo hanno il passo incontestabile e altissimo del capolavoro. Di quegli affreschi che sono scoperti a marcire dietro una mano di intonaco e poi, portati alla luce, sono di uno splendore passato, stinto, che mozza il fiato. 
Bassani ti è venuto a cercare, pure dopo che sei morto. E’ andato dalla tua vedova, ha voluto il manoscritto originale. Che non fosse in nulla contaminato da me e dalle mie richieste. L’ha portato in Feltrinelli, ha fatto di te quello che sei ora, uno dei più noti scrittori italiani di tutti i tempi. 
Bassani, lo scrittore dei vinti. Dei finiti. Come poteva non essere stregato da te? Che sei il dio dello splendore del tramonto, dell’abbandono, del languore, dell’ineluttabilità. Come non potevate parlare la stessa lingua segreta fatta di rinunce, di sofferenza, di accettazione e di scuotimenti di capo? 
Ma era te che avrei voluto attirare nella vita. Nella vita potente e prepotente che io invece coglievo tutto intorno. Nella necessità, nel dovere, di agire, di spronare, di smuovere. Di dare una botta ai Sedara, gettarli di fianco, e mettercisi al loro posto. 
Tu eri il nemico, Tomasi. Tu sei sempre stato il mio nemico.
Non è di destra o di sinistra che stiamo parlando. Non di progressisti o conservatori. Di nobiltà e borghesia. Credimi. Nonostante la mia storia politica e la mia storia di vita, non è per questo che ti ho respinto. 
Io ti ho respinto perché sono un essere umano. Nient’altro. Con la debolezza di sperare, con il desiderio di credere che i giorni passino sopra i giorni, che il tempo sia quel tempo che si butta in avanti e là rimane, che si possa fare qualcosa con questa imperfetta, mobile, corrotta, stupida, disastrosa materia umana.
Perdonami Tomasi. Perdonami perché sono un uomo. Come te. Uno di quelli per cui hai inventato la pietà. Per cui sei morto di pietà.

Elio Vittorini




Giuseppe Tomasi di Lampedusa incontra Giorgio Bassani ad un concorso di poesia. Ancora non sanno che neanche un anno dopo la sua morte sarà Bassani stesso a volere fortemente e con insistenza che il suo libro vedesse la pubblicazione con l’editore Feltrinelli per cui lavorava, arrivando a recarsi lui stesso dalla vedova dello scrittore a prendere nelle mani il suo manoscritto originale. Tomasi di Lampedusa ha già scritto Il Gattopardo, ma non lo ha ancora proposto a nessun editore. Sceglie, nel 1956, Elio Vittorini, che lavora in Mondadori. Si dice che, quella prima volta, Vittorini non abbia nemmeno letto il dattiloscritto. Gli era arrivato dinanzi, infatti, accompagnato dai pareri di tre lettori. Tutti e tre bocciavano il romanzo, pur se lodandone molte caratteristiche. Vittorini mandò all’editore una nota con una breve sintesi dei tre giudizi, con il suggerimento di chiedere all’autore di migliorare l’opera e rinviarla una volta integrata. Era il 22 ottobre 1956 e così diceva la nota: “Per i due primi lettori il lavoro manca soltanto di abilità; per il terzo di determinazione morale. Manca comunque di qualcosa che rende monco il libro pur pregevole. Non si può far capire all’autore che dovrebbe rimetterci le mani (e in qual senso)?”. Questa si tradusse, nelle spire editoriali, in una lettera di netto rifiuto consegnata il 10 dicembre seguente. Tomasi di Lampedusa scrisse due nuovi capitoli e nel 1957 rispedì l’opera a Vittorini che, in quel tempo, lavorava nell’Einaudi. Nuovamente il testo passò al vaglio di due lettori, ma questa volta fu Vittorini stesso a firmare la lettera di rifiuto.

Egregio Tomasi, 

il suo Gattopardo l'ho letto davvero con interesse e attenzione. Anche se come modi, tono, linguaggio e impostazione narrativa può apparire piuttosto Vecchiotto, da fine Ottocento, il suo è un libro molto serio e onesto, dove sincerità e impegno riescono a toccare il segno in momenti di acuta analisi psicologica, come nel capitolo quinto, forse il più convincente di tutto il romanzo. 
Tuttavia, devo dirle la verità, esso non mi pare sufficientemente equilibrato nelle sue parti, e io credo che questo "squilibrio" sia dovuto ai due interessi, saggistico (storia, sociologia, eccetera…) e narrativo, che si incontrano e scontrano nel libro con prevalenza, in gran parte, del primo sul secondo. […]
Voglio dire che, seguendo passo passo il filo della storia di don Fabrizio Salina, il libro non riesce a diventare (come vorrebbe) il racconto d'un epoca e, insieme, il racconto della decadenza di quell'epoca, ma piuttosto la descrizione delle reazioni psicologiche del principe alle modificazioni politiche e sociali di quell'epoca. […]

Con i migliori saluti, suo Elio Vittorini.

La lettera fece in tempo a giungere a Tomasi di Lampedusa, due giorni prima della sua morte.

martedì 3 gennaio 2017

La ballata delle scarpe perdute


Riversa nell’erba sporca, la suola verso l’alto, fisso il cielo nero e umido. Vicino a me due bottiglie vuote, una busta di plastica, una siringa usata. Il fiume è a pochi metri, non più di due passi e mezzo. Se potessi muovermi, inizierei a scuotermi con violenza da un lato e dall’altro, sempre più forte, sempre più rapida. Finché non cadrei in acqua. A ricongiungermi col piede che mi calzava.

Non mi hanno più trovata dall’estate del 2005. Giocavano a chi tirava le infradito più lontano. Io sono finita in una fenditura della scogliera, scivolata dietro una sporgenza di roccia scura, dove solo i gabbiani arrivano e subito ripartono. Ma ero così leggera. Per un attimo mi è sembrato di volare.

Ero ancora al suo piede quando hanno iniziato a baciarsi furiosamente, con fame. Lui le aveva afferrato il sedere con una mano, con l’altra cercava di sfilarmi via. Ma io resistevo. Resistevo tenacemente. Poi è stata lei, mi ha sciolto i lacci come sapeva fare, mi ha sfilata senza nemmeno guardarmi, senza staccare la faccia da lui. Mi ha gettata via.

Era minuscolo. Sono minuscola anch’io. Non più grande di un pugno. Sono scivolata via mentre lo portavano di corsa in ospedale, dopo l’ennesima crisi respiratoria. Non sono più tornati a cercarmi.

Mi aveva fatta con cura. Puntale e contrafforte in cuoio pregiato, fodera e tomaia nella migliore pelle, chiodatura del tacco in ottone, rinforzo di metallo. “Queste – diceva alla moglie mostrandomi – le calzerà Vincenzo il giorno della sua laurea”. Quando terminava la cucitura “blake”, anni dopo, mi alzava e diceva alla moglie “Ancora qualche anno e si laureerà. E’ tutta la vita che lavoro per quel momento, per vedere Vincenzo con le mie scarpe il giorno della sua laurea”. Col tempo ha lavorato sempre meno a me finché non ha smesso del tutto. Non ha mai fatto la mia gemella.

Mi ha portato per anni e anni. Forse venti, forse trenta. Abbiamo fatto migliaia di chilometri, visto decine di città, dormito all’aperto o in cameroni pieni di gente. Mi ha difeso da due mani che cercavano di strapparmi via durante il sonno. Abbiamo camminato tanto insieme che mi si è aperto un sorriso sul davanti e dalla mia suola bucata mi si vedeva tutto il sottopiede. Ma non mi è mai importato. Oggi, semplicemente, è caduto. All’improvviso. Non ho sentito più il suo peso familiare su di me. Infarto, infarto, diceva la gente tutta intorno. Lo hanno portato via che già non respirava e sulla strada sono rimasta io sola.

Sì, sono stata io. Correva. Era senza fiato ma continuava ad andare. Lo inseguivano, gli urlavano di fermarsi, arrancavano. Io sentivo di farmi sempre più larga, qualcosa si andava allentando. Era il mio momento. Lo aspettavo da sempre. Individuai un sasso grande nel terreno. Mi ci buttai contro. Lui rotolò a terra, io finii qualche metro più avanti. Lo raggiunsero, lo legarono, lo portarono via. Non riuscivo a crederci. Finalmente libera.

Era la mia metà, la mia gioia. Il mio completamento. Così uguale eppure così diversa. Era lo specchio di me. Ogni mia sporgenza era una sua rientranza. Ogni suo graffio sulla pelle, il segno del mio tempo che trascorreva. Amavo ogni screpolatura della nostra vecchiaia, amavo come si andava stingendo. E così lei con me. Poi un giorno, quei rumori terribili. Urla dall’alto, grida, pianti. Fu afferrata, in uno scatto cieco, in un lampo di secondo, la vidi levata in alto e scagliata via. Mancò l’uomo cui era diretta, volò via dalla finestra aperta del quinto piano e non la vidi mai più. Vittima di una guerra incomprensibile che non era la nostra.