Salerno
doppia faccia, come una moneta.
Salerno
dei veleni sotterranei e dei pare brutto che nascondono la bocca.
Città
del sud che si crede sola. Signora vecchia chiusa nella sua vecchia casa, con le
spalle voltate alla finestra.
Città
di mare che ha dimenticato il mare.
Città
di industria che ha perso le sue industrie.
Salerno
a vocazione commerciale. Mette su un sorriso da venditore che ti mostra la sua
merce scaduta e ti disprezza perché gliela vuoi comprare.
Città
cieca che non ama la bellezza. E dentro una bellezza struggente che sa di tufo
del quattrocento e di salsedine di mare.
Salerno,
città piana e conservatrice, cova a mezza bocca un rancore chiuso, nostalgia di
un Principato estinto. In alto, in bilico sulla collina, il castello Arechi, che
pare guardare in giù e volersi buttare per non dover sopportare un’altra festa
di diciott’anni o un matrimonio a tema mare.
Salerno,
città europea, della ricostruzione architettonica e Bohigas e Zaha Adid e un
Crescent che ha smesso di crescere. Fiera di qualcosa che non le appartiene. Si
offre a innesti artificiali, nella speranza di sembrare diversa ma nella
segreta volontà di rimanere uguale.
Salerno
una città che si risveglia lenta, guardinga, una cultura carbonara che striscia
per i suoi vicoli del centro storico, che scrive poesie sui muri e sulle scale,
che disegna la sua voglia di cambiare.
Una
città che sa dimenticare le cose grandi che un giorno per caso le è capitato di
ospitare. Ma che non dimentica mai un piccolo torto familiare.
Salerno
con i muri impregnati di milza fritta, con il patrono esattore delle tasche,
dal cuore di portamonete che si apre solo per incassare. Salerno che si lega al
dito lo sgarbo fatto dal comune al santo comunale.
Una
città di fazioni in lotta, di quartieri in astio, di condomini in guerra. Di
figli delle chiancarelle, di figli delle fornelle, di figli della zona
orientale, di figli di mercatello. Discendenze infinite, linee rette, barriere
chiuse. Mai nessuno che voglia adottare.
Salerno
una città che non ho saputo amare. Rimpianto segreto della mia vita vagante.
Porto
in cui tornare.
Perché
il suo golfo ha la forma di fornace e il sole potente delle otto produce
minuscole scintille di fuoco su un mare di metallo, come se qualcuno vi stesse
affilando il cielo contro.
Perché
a mezzogiorno nella piazza di Torrione i vecchi giocano a carte, portandosi da casa
le loro sedie, in gruppi intenti, e i bambini urlano correndo in una cadenza
familiare.
Perché
alla sera, alle sette, il lungomare ha la dolcezza di quel filo di luce rosata
e morbida che rimane subito dopo il tramonto e ogni cosa per un istante diventa
bellissima da guardare.
Perché
la notte pulsa di una vita feroce che non vuole mollare la presa e mai in
nessuna ora lascia che la città si spenga.
Doppia
faccia anch’io, Salerno. Perché ti fuggo e non faccio altro che voler tornare.
Salerno,
in cui un giorno qualcuno scrisse: questo voler partire, questo voler restare.Foto di Francesca Bifulco |
Foto di Francesca Bifulco |
Foto di Francesca Bifulco |
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