venerdì 21 ottobre 2016

Il volo del Balon

Davanti alla scuola che frequento, in un quartiere povero e multietnico, c’è un parchetto incantato. Nel centro riposa, che sembra veramente addormentata come un gufo che dorme con la testa sotto la sua ala, una mongolfiera. E’ una visione incredibile. Lì, immobile, tra quattro alberelli sottili, questo pachiderma leggero e bianco, tenuto fermo con una decina di funi, proprio come se appartenesse a un circo. Tutte le volte in cui ci sono passata davanti, l’ho sempre vista là, ferma e prigioniera, e mi sembrava magnifica ma anche un po’ triste, un grosso meraviglioso uccello incastrato tra le corde.
Oggi pomeriggio, ho sentito che c’era qualcosa di diverso nell’aria, un fermento.
Ho prima visto un uomo che iniziava ad armeggiare con le sue funi, poi ci entrava dentro e rimaneva lì, nascosto alla mia vista. Ho pensato facesse manutenzione.
Poi l’aria si è messa a vibrare e dopo un primo stordimento ho capito cosa fosse: erano minuscole, sottili, voci di bambini che diventavano sempre più forti e sempre più vicine, finchè non sono apparsi alla mia vista, piccolissimi, in fila per due, vestiti con divise tutte uguali e colorate, che ridevano e scherzavano. Appena hanno svoltato l’angolo e hanno visto il grosso uccello rotondo, hanno preso ad urlare eccitati e lo indicavano e allora ho guardato anche io e mi sono accorta che si stava svegliando.
Lei, che non avevo mai visto viva, si iniziava a muovere piano, come se si stiracchiasse cautamente, senza credere di poterlo fare davvero dopo tanta immobilità.
Un secondo uomo si era unito al primo ad allentare e sciogliere funi. Nel frattempo i bambini erano arrivati là sotto e rumoreggiavano intorno come pulcini, io temevo che, dopo tanta immensa immobilità, tutta quella minuscola e velocissima vita fosse troppo per la mongolfiera, un risveglio troppo traumatico. Ma in realtà sembrava farle bene.
Dopo poco sembrava ringalluzzita e prese a salire, in verticale, come peter pan che decolla da fermo con la sola forza dei pensieri felici. Doveva avere quell’enorme testa completamente piena di pensieri felici, in quel momento.
Quando la sua testa fu finalmente e per la prima volta, a mia memoria, al di sopra di quei quattro alberi suoi secondini, io la sentii potentissima: la sua brama di cielo.
 Ora il suo interesse per i bambini mi sembrava passato, era solo il cielo che sentiva e presagiva. La vedevo rabbrividire dal desiderio e dal piacere. Mi prese una paura irrazionale, che qualcosa potesse andare storto, che all’ultimo momento i due uomini decidessero che ci fosse troppo vento o che non fosse sicuro per i bambini e le passassero di nuovo tutte quelle funi attorno senza averla fatta volare.
 Il tempo passava ma non si decidevano a far salire i bimbi e lasciarla andare. Io dovevo entrare a lezione, ma non riuscivo a staccarmi di là, senza sapere se ce l’avrebbe fatta, se avrebbe placato quell’enorme brama di cielo che avvertivo. Alla fine mi decisi e rientrai nella scuola.
Dopo una decina di minuti però non riuscii più a trattenermi, mi ero accorta di non sentire nulla della lezione e che tutta la mia testa era riempita di quel pallone. Corsi via.
Arrivata al portone sentii un forte odore di bruciato, ebbi paura e corsi più forte. Uscii all’esterno e vidi il parco di fronte a me. Vuoto. La mongolfiera era sparita, i bambini anche. C’era un enorme vuoto tra gli alberi, come un cratere lasciato da un meteorite.
Poi scorsi un’unica sottilissima fune, fissata ad un paletto, che quasi non si vedeva. La seguii con lo sguardo, in alto sempre più in alto, tanto che dovetti buttare indietro la testa, e lei era là, all’altro capo della fune, bellissima leggera felice. Cavalcava le correnti, non sembrava più enorme e sproporzionata, era giusta, era delle dimensioni perfette per quel cielo.
Ero così contenta per lei e avvertivo così tanto la sua gioia e la sua soddisfazione che non riuscii neppure a dispiacermi per quell’unica fune rimasta che le impediva di volarsene via per sempre.

Aveva avuto il suo cielo. Se lo stava bevendo, con le nubi e col vento. Questo, lo sentivo, le sarebbe bastato per covare felicità per altre centinaia di giorni sulla terra.












venerdì 7 ottobre 2016

Alle donne e agli uomini della mia vita

            Sappiatelo uomini della mia vita, creature umane bellissime e straniere, che io ancora non ho imparato a vivere, forse ancora non ho imparato che bisogna vivere. Ma c’è una cosa che so, uomini miei, uomini e donne che mi appartenete, so che imparerò. E non saprò neppure di aver imparato.

 C’è una cosa che ho saputo. Senza accorgermene, naturalmente, mentre vivevo: L’ineluttabilità. La vita è questa qui, che io la impari o che non la impari, che la riconosca o non la riconosca, che la guidi o la faccia scorrere. La vita è questa ed è qui. Ho imparato, miei cari, l’ineluttabilità e il tempo che involgarisce tutto perché tutto rende finito o ripetibile. Potrò sfuggire al tempo? Voglio farlo? Non so. Questo e qui sono mura e torri alte, è difficile starne fuori. Sempre che io lo voglia.

Sappiate, uomini che influenzate la mia esistenza, che io non so, soprattutto non so che devo morire e che a un certo punto la terra sarà senza di me e gli uomini della mia vita saranno uomini e basta perché tutto ciò che si agglomerava intorno a me scoppierà, si separerà, perderà me, la sua unità.
Cosa siamo allora? Forze aggregatrici? Creatori di insiemi e ponti di unità? Costruttori bellissimi di castelli di legami? Modellisti accurati di piccoli creati in miniatura, ripetenti minuziosamente la creazione in grande di dio. Manovali artigiani della piccola creazione?

Io so, miei esseri, che un uomo che nasce nasce agli altri uomini e nasce già posseduto e che già possiede e poi incontra e ancora viene posseduto e ancora possiede e viene perso e guadagnato e perde e guadagna. Ma non so il valore di ciò che perde e ciò che guadagna e non so la durata, la natura e la forma. E so che se sapessi questo, io avrei imparato la certezza e io e la mia vita cambieremmo completamente, una volta e per sempre, definitivamente.

Io non so nulla, care persone della stessa vita, ma so ammirarvi e amarvi e so desiderarvi, a volte so anche biasimarvi. Non riesco a odiarvi. E anche se non vi trattengo sappiate che in qualche modo vi tengo, anche se non vi cerco sappiate che  in un certo punto della mia vita vi ho trovato e vi ho conservato. Cosa salvare della precipitosa esistenza umana se non questo? Cosa fa eternità se non rubare e nascondere un ingranaggio al meccanismo che tutti porta all’arresto?



          Di che materia siete fatti, uomini che popolate il mio spirito e i miei desideri? Cosa lasciate in me, cosa conformate? E’ sangue carne spirito o amore?
Siete così complesse, nature mie umane. Vi tengo vi tengo e sempre mi sfuggite. Dove ve ne state? Come fate a mostrare sempre una sola faccia?


Eravate come ombre e vi ho visto che vi fingevate uomini e io ero fantasma pure e pure mi fingevo uomo e ci sfioravamo e non ci toccavamo, io non sentivo nulla, voi non sentivate. Come posso toccare veramente gli uomini? Come posso sperdere quei fantasmi, costringerli a smascherarsi, denudarli gridando: Non mentire tu sei uomo. Mostrati a me, non temere. E come faccio io stessa a non temere che gli altri mi si mostrino?

Io vi voglio carne nella mia carne, vita della mia vita, io vi voglio innestare nelle mie carni come pezzi vivi di una creatura mitologica. Non separatevi da me, condividiamo organi e pensieri. Come faccio a non perdervi? Come. Faccio. A non. Perdervi.


Devo perdervi. Del resto perdo me, continuo a perdermi, lasciandomi indietro come pelle vecchia. Vuota sulla strada, fredda e vuota, esistita, mentre la me stessa palpitante e accesa procede avanti e si fa nuova pelle.
Devo perdervi e recuperarvi, perdervi e recuperarvi. E perdermi e a volte recuperarmi.

Restate vicini però, restate vicini quando vi perderò. E  fate che io vi riconosca.