La mattina: quando la coscienza
si è appena accorta di non essere più spenta e di non essere più buia, irrorata
dal caffè del mattino, questa specie di trasfusione di vitalità, che da una
certa età in poi è necessaria per iniziare a vivere ogni giorno, durante la
quale io leggo. Leggo perché i libri, al mattino, sono per me, anch’essi una trasfusione
di vita, di vita mentale, di vita interiore, non saprei come chiamarla. E’ come
se nutrendomi delle loro parole, io avessi la materia prima per poi
trasformarla nelle mie e riutilizzarla come mie parole, cosa che non potrei
fare in assenza delle loro, perché non avrei la materia da trasformare. E poi
leggo la sera, prima di andare a letto, perché leggo prima di andare a letto?
Perché è come se quella vita di altri, perché il libro non è altro che la vita
di un altro che raccoglie in sé la vita di altri, la vita dello scrittore che
raccoglie e salva la vita delle persone che hanno ispirato il libro, o la sua
stessa vita, o tutto quanto insieme. Ebbene tutte quelle vite che non sono la
mia, è come se dessero un senso alla fine della mia giornata, qualsiasi cosa
abbia fatto in quella giornata, leggere di loro, mi dà un senso, mi fa sentire
parte dell’umanità come ad altre persone stare in una comunità, aiutare,
costruire qualcosa, li fa sentire parte dell’umanità.
Stamattina ho letto uno scrittore
francese, scoperto appena, grazie ad un articolo di un anno e mezzo fa, che ho
trovato casualmente in un vecchio giornale. Quell’articolo mi ha innamorato
perché era così personale, perché gli scrittori, a differenza dei giornalisti,
hanno questa bellissima capacità di trasferire sé stessi, la propria umanità,
tutto quello che pensano, che vedono, nei loro scritti. Sì, sono dei pazzi
egocentrici, sicuramente, egocentrici fino al midollo, ma di un egocentrismo
autistico, chiuso: voglio che mi
guardiate ma non come me stesso, ci deve essere un mezzo tra me e voi. Io
voglio essere guardato da voi ma non dritto negli occhi, ho bisogno di uno
schermo e quello schermo è la scrittura, sono le loro parole, i libri, gli articoli.
Questo scrittore però, era più
onesto degli altri, più vivo degli altri, perché metteva sulla carta il suo
nome, la sua vita, niente personaggi, niente pseudonimi, era lui e basta. E mi
è piaciuto così tanto che l’ho comprato di corsa, appena ho finito di leggere
quell’articolo sono andata in libreria a cercare i suoi libri e ne ho preso uno
dal titolo decisamente eloquente. Si chiama “Vite che non sono la mia”. Vite
che non sono la mia, eh. Non è questo che fanno gli scrittori in fondo? Rubano
vite che non sono la propria. In qualche modo si arrogano il diritto di
raccontarle.
Ma perché loro, mi sono sempre
chiesta, perché loro si arrogano il diritto di raccontarle? Perché gli altri
cedono, talvolta di buon grado, questo importantissimo diritto, quello di
parlare della propria vita, quello di consegnare il senso della loro vita alle parole?
Perché? Beh io penso che sia perché riconoscono il talento, riconoscono la
vocazione.
Perché ci si lascia ritrarre da un artista?
Tutti quei quadri, di secoli e secoli, madonne con facce di povere contadine o
borghesi che posavano per quadri scandalosi di avanguardia, perché lo facevano?
perché si donavano in questo modo al talento, talora totalmente estraneo? Non
lo so.
La spiegazione è difficile da
trovare, ma credo che raccolga e racchiuda in qualche modo tutta la bellezza
degli esseri umani, la vanità sicuramente, ma non è solo vanità, perché loro
non lo fanno solo per sé stessi, lo
fanno per quell’arte di cui l’artista che li sta immortalando è solo un
tramite. Loro vogliono inserirsi in quel flusso che legherà se stessi e
l’artista e il loro tempo ai tempi futuri e vogliono entrarci perché sanno
quanto sia importante tutto questo per il genere umano.
Stavamo dicendo, il libro che ho
letto, stamattina, è un libro di quelli bellissimi, che non trasfigurano
totalmente le vite che gravitano intorno all’autore, lasciano nomi, date,
luoghi, così come sono, però è come se le esaltassero, come se riuscissero a
trovare l’oro, l’oro puro, in quello che per noi sarebbe solo una manciata di
terra, di terra comune, di terra già vista, magari a volte terra bella, terra
interessante ma solo terra. E loro vedono luccicare l’oro. Poi, sì, ci vuole un
processo particolare perché quell’oro si riveli in tutta la sua bellezza, perchè
smetta di sembrare terra, e quel processo deve essere fatto con cura e con
sapienza, ed è quello che fanno loro. Perdonatemi la metafora, è un po’ trita
quella dell’oro, ma è quella che forse rende meglio l’idea. E allora ho
iniziato a pensare agli uomini della mia vita, ho iniziato a pensare, perché
io, che voglio scrivere, che ho il senso, la voglia, se non il talento, di
scrivere, perché non riesco a illuminare così, a setacciare così, le persone,
che ho a mia disposizione, che non sono meno speciali di quelle che quello
scrittore ha a sua disposizione, anzi, anzi.
Un uomo fuori da un’agenzia di
viaggio, sta spruzzando acqua su un bonsai, il termine tecnico dovrebbe essere
nebulizzare.
Ma stavo dicendo di stamattina e
del mio desiderio di parlare e di pensare, cosa ho pensato. Ho pensato alla mia
semipermanenza in mezzo a della gente di teatro, perché? Perché, mi sono
accorta che il teatro, che si crede essere il luogo della massima finizione,
luogo dell’inganno, in verità, è il luogo della realtà. Quello che ho scoperto,
frequentando attrici, ma attrici vere, attrici appassionate, attrici che ne
vivono, che non fanno altro, che lo insegnano, e questo è ancora di più, perché
per insegnare qualcosa devi prima conoscerla e per conoscerla devi entrare,
tuffarti dentro quello che stai facendo, una cosa è fare e una cosa è dover
estrinsecare, estrapolare, per darla ad altri, e così mi sono resa conto di
questo, che io ero l’unica che mentiva là in mezzo.
Tra tutte le persone che recitavano, io ero
l’unica che mentiva, e forse questo mi ha reso la più scrittrice di tutti. Lo
scrittore tra gli attori, è lui quello che mente. Perché? Perché non bisogna
credere che il teatro sia finzione, in realtà il teatro attinge ai serbatoi più
concreti di realtà, quelli che uno ha dentro di sé.
Una delle due insegnanti all’inizio
del mio corso, frustrata dalla mia incapacità di attingere alla realtà, di
manipolarla, di prenderla e farne qualcosa, anche solo buttarla fuori, esporla,
frustrata da questa mia totale irrealtà, ha detto: “La vergogna in teatro- e per questo intendeva la
timidezza, la pudicizia, l’imbarazzo- la vergogna in teatro è volgarità”.
Non so se fosse una sua frase, o se gliela
avessero ripetuta i suoi maestri al tempo, ma è una frase verissima. E dovrebbe
essere vera anche nella vita per quanto ne so. La vergogna in teatro è
volgarità, chi si vergogna in teatro è come in un salotto buono qualcuno di
sguaiato, che parla ad altissima voce, che monopolizza l’attenzione, che
monopolizza la conversazione. In teatro chi si schernisce, chi si vergogna, è
qualcuno che non rispetta le regole civili, le regole del teatro. Vagli a dire,
che io ho un problema con la realtà, un serio problema. E mi sforzo, sì, di
capirla, di esserne parte. Ma è un processo difficoltoso, per me, in qualche
modo monca, è difficile arrivare a quello che per altri è invece qualcosa di
assolutamente naturale. Perché, non so, me lo sono sempre chiesta, ma è inutile
cercare di trovare una spiegazione, perché sono fatta così e basta.
Quello che mi preme dire, che mi
premeva dire poco fa, e che ora mi riesce un po’ più difficile, perché a me la
coscienza viene su a ondate, a rigurgiti che poi ti lasciano il sapore in
bocca, un po’ acido, a volte dolciastro, un sapore digerito di cose che tu hai
conosciuto attraverso i sensi, hai preso dall’esterno ma poi hai intriso di te,
perché la digestione non è altro che questo se ci pensate: inserite in voi
qualcosa di fuori, di prodotto da altri, e poi lo intridete di cose del vostro
corpo.
Prima entra in voi, si fa questo
bel tour di vostre secrezioni, di vostri umori, striscia nel vostro interno e
poi si riempie, il cosiddetto bolo, si riempie di saliva, di succhi gastrici e
poi, sì, viene scomposto, ma non è che il suo passaggio resti indifferente a
voi, passi inosservato, non è così: Lascia qualcosa, prende qualcosa, esce
diverso.
E il gusto, che cos’è il gusto? A
parte sorbire di quell’”esterno”. Il gusto è anche memoria, è anche ricordo sensoriale,
di quello che voi avete conosciuto in qualche modo, tra tatto gusto olfatto. E
poi memoria. E non è diverso con le esperienze della vita, non è diverso,
sebbene entrino per altri canali, sebbene siano meno materiche, come accade col
cibo, il cibo è sfacciato in questa sua materialità, è sfacciato in questo suo
percorso, ma lo stesso accade con tante altre cose: accade con gli odori,
accade con i pensieri. Quante volte accade con i pensieri.
E quindi, Io e il teatro. Se mi
interrogo sul perchè io abbia voluto fare il teatro, rispondo in vari modi: uno
è quello di questa dannata ansia che io ho di essere quello che non sono, il
secondo è quello del fatto che ho una scarsissima conoscenza di me.
Io sono profonda più dell’antro più profondo e
oscuro, io sono infinita più dell’universo infinito e sconosciuto, non perché
io sia speciale, ma perché è così, ogni essere umano è così.
Io non ci credo che ci siano persone
che hanno una conoscenza così chiara e finita di se stessi, loro credono di
averla, è perché non si sono posti ancora in determinate situazioni, non si
sono ancora posti determinate domande.
Sicuramente sono più ancorate
alla realtà di me, meno perse in loro stesse. C’è un modo più chiaro di
esplorare sé stessi, piuttosto che gettarsi nel buio, buttarsi alla cieca nel
buio come faccio io.
Puoi legarti a una corda, puoi puntellarti a
una parete, puoi portarti i bengala, che illuminino il percorso, puoi studiare,
leggere, quello che hanno fatto altri prima di te, immergendosi in altre grotte
che non sono loro stessi, e seguire quella strada. Si, sono sicuramente
approcci più sensati, piuttosto che calarsi alla cieca e cercare di capire, di
individuare, quello che i sensi ottenebrati cercano di mandarti, cercano di
decifrare, ma io faccio così. Sono fatta così. Che posso fare? Migliorare,
sicuramente. Ma migliorare me stessa non è stato mai il mio pezzo forte,
denigrarla si, criticarla si, migliorarla no, non molto.
Quindi scarsa conoscenza delle
proprie capacità e caratteristiche, voglia di sperimentarle si, e dall’altro
lato, c’è il ricordo dell’infanzia, che è una cosa che mi perseguita. Io devo
liberarmi della mia infanzia perché se no continuerò a cercarla in ogni cosa
che faccio, a cercare di riprodurla. Ci sono esperienze che puoi fare anche al
di là della tua infanzia, anche ammettendo di essere cresciuta. Ammettilo,
porca miseria, cerca altre esperienze.
Da piccola ho amato recitare, ero
molto brava, per quanto possano essere bravi i bambini, ma avendo conosciuto
bambini che erano incapaci, veramente incapaci, di recitare, ed io spiccavo, su
di loro,devo ammettere che lo facevo bene. Perché immaginavo, perché
riproducevo, copiavo e riproponevo, come fanno gli attori, rimasti in questo
modo bambini. Io li invidio, non lo riesco più a fare, la mia mente è bloccata,
non immagina più, il mio cuore è bloccato, non sente più, la mia immaginazione
è bloccata, non riproduce più. Volevo trovare un modo per sbloccarmi e non ci
sono riuscita, tutto quello che ho prodotto sono stati momenti di possessione
quasi orgasmici e incontrollati, la caduta, la perdita delle inibizioni, ma
questo non è teatro, questa non è immaginazione controllata, questa non è
attingere al reale, è solo togliere i freni, e allora ho fallito in questo mio
tentativo, ma ho fallito solo a causa mia, perché avevo delle ottime
insegnanti, perché avevo un ambiente protetto e stimolante di persone
intelligenti e dotate che volevano divertirsi.
Ma io? cosa volevo fare io? Io
volevo assistere. Il mio desiderio principale in ogni cosa, non è fare ma
assistere, io sono un testimone. Quando studiavo procedura penale, sul mio
manuale, al margine, io avevo scritto: Non giudice, non imputato, ma testimone
sempre.