domenica 15 novembre 2015

Della lettura e di altri parti

Voi parlate tanto di libri ma non sapete neanche che sapore hanno. 
Ne avete mai mangiato uno? Voi state lì a guardarli, li girate, li rigirate, gli date un’annusatina, una leccata, timida con la punta della lingua, li pesate sul palmo della mano. E passate quei primi istanti a soppesarli, ne individuate gli ingredienti, la perfezione degli odori, delle proporzioni. 
Ma via, sprecate quei primi fondamentali istanti a parlarci sopra al libro, a mettere la vostra testa dietro la sua copertina.
Ma via buttatevi, azzannateli, mordeteli, divorateli, affondateci la bocca. Dal libro deve colare sangue e succo sul vostro mento, sul bavero, sul petto. 
Non ci deve essere rispetto per i libri ma un sacrificio. Un sacrificio cruento, una fusione.
Mi avete chiesto in che modo li leggo io i libri. In questo modo carnivoro: potrei disperderne brandelli , far colare il succo ma io li voglio, li desidero dentro di me, provo piacere. 
Mi avete chiesto che cos’è leggere. Leggere è tutti quegli atti totalmente umani, bassamente umani, è un meraviglioso atto di piacere. Leggere è mangiare, è l’atto sessuale, è ingestione e espulsione. 
Voi siete i sacerdoti del libro, i custodi di quel luogo sacro. Ma via! Il libro è un sacro da profanare: profanatelo, riempitelo di umano, pisciateci in quella chiesa. 
E non venite a dirmi che leggete ad alta voce, che sottolineate le righe più belle, che piegate le pagine che vi sono piaciute. Così trattate un libro come un libro: sapete di essere lì, di averlo in mano, sapete che quella parte vi piace più dell’altra, sapete che quel libro finirà, che è destinato a finire. Come si fa a perdersi quando quegli atti vi ricordano sempre a voi stessi? Come si fa a fondersi, sciogliersi, mischiarsi e ricomporsi col libro, se tenete sempre una penna in mano e un tigno in testa, trovare le parti più belle. Affermate voi stessi sul libro quando dovreste tacervi e basta, e stare ad ascoltare. Ascoltate, siamo condannati ad essere noi stessi per la vita, siamo stati noi stessi dalla nascita alla crescita, saremo noi stessi nella morte. Non siete stanchi? E’ come avere sempre una sola vista, un solo orizzonte, un solo suono, un solo odore da annusare e riannusare, un solo tessuto da palpare e ripalpare. 
Voi siete voi, sempre pieni di voi, attaccati da nuguli di voi stessi che vi si ficcano negli occhi, non sentite il bisogno di uscire da voi stessi, non sentite il limite di vedere un mondo sempre infilati in un sacco che siete voi, che ha la vostra stoffa? 
I libri sono i buchi, buchi in cui spiare, i buchi da allargare e finalmente uscire, uscire a vedere come sarebbe il mondo se voi non ci foste. Cos’altro vi dà la possibilità di esistere smettendo di esistere? Di guardare l’esistenza senza doverla sempre filtrare per voi stessi, di conoscere finalmente altro. E’ l’unico modo per conoscere altro e non sempre il solito composto stantio, impastato con parti di voi.


Mentre voi parlavate di testa, io pensavo di viscere. E il mio pensiero di viscere spiava attraverso l’ombelico e vedeva cieco, perché l’ombelico non ha pupille: è un occhio cavato, vede sentendo, e ricordando.
E il mio ombelico mi ha ricordato che il mio rapporto con i libri passa da lì, nel sentimento di un cordone tagliato. In quella sensazione fantasma che hanno le persone che hanno perso un arto, mutilato, quando sentono di poterlo muovere ancora. 
Il mio rapporto coi libri è un rapporto ombelicale, vi ho detto. Cosa significa, mi avete chiesto. Non lo so, non l’avevo mai detto prima ma ho sentito che era vero mentre lo dicevo. E ho sentito che era vero quando voi ricostruivate l’etimologia di autore, autore- autorità, all’origine del libro c’è un’autorità che pone. Lì ho smesso di ascoltarvi perché c’era una vocina-me che mi dava fastidio e volevo chiarire con lei perché la smettesse di borbottare con quello squittio sommesso. “Autorità, autorità- diceva- bella scoperta. Tutti hanno bisogno di un’autorità. E’ un’autorità che pone anche noi stessi quando ci partorisce continuamente no? Non puoi pensare che una volta per tutte tu sia bello e partorito, no no. Sarebbe troppo difficile essere sé stessi ogni giorno da soli, senza alcun aiuto esterno. Autorità, autorità si certo. L’autorità ci serve, noi veniamo partoriti continuamente dall’autorità.”  Eh? Non potei trattenermi dall’interromperla, volevo che si sfogasse da sola e si esaurisse, come al solito. Volevo continuare ad ascoltare voi che ora parlavate di metodi di lettura lenta ma non mi sono saputa trattenere. Lei a fatica ha represso un mugolio di vittoria. “Si si si- mi ha detto con voce sibilante che voleva essere suadente- si autorità. Tu lo sai cosa fai quando leggi un libro?” Ero affascinata, diceva cose sconosciute che sapevo benissimo. “Entri in un ventre. Oh si si si. Tu ti accucci in quel ventre e ti attacchi il tuo cordone. E non sei più completo, non sei più autonomo, sei feto. Dipendi in tutto e per tutto dal libro che ti sfama. Tu puoi provare solo bisogni fisici tutto il resto dei sentimenti non ti appartiene più, vedi quello che vede la Madre, senti l’esterno solo ovattato dal suo ventre, non senti più il tuo interno, come se non esistesse più. Senti il suo interno, quello della Madre. Ti sei chiusa nell’utero, piccolo essere molle e informe, ti sei chiusa nell’utero, si si si, ora ti muovi se si muove lui, respiri la sua aria, l’interno e l’esterno non sono più tuoi. Sono i suoi.”  Avevo gli occhi spalancati e continuavo ad ascoltarla inebetita, fingendo di sentire voi. Momenti di nulla, vuoto di te, dipendenza fetale. Aveva ragione. Esisti e non esisti, esisti o non esisti, non ha importanza, aveva ragione. E poi il libro finisce e vieni espulsa fuori, ogni parto è traumatico ma è anche liberatorio. E quando esci sei sempre tu eppure ti sei accresciuta, sei stata in gestazione.
 I libri sono così, ti tengono in una continua gestazione. E le madri? Le madri che creano quegli uteri? Che ti offrono quegli uteri? Santo cielo - pensai - gli scrittori non sono altro che madri in affitto.

sabato 12 settembre 2015

Favole del buon risveglio

Mia cara bimba,
Io non voglio raccontarti storie per farti dormire.
 Scoprirai che, nella vita, è molto facile addormentarsi. Dormirai dopo grandi gioie e dopo enormi dolori, dormirai se la tua vita è perfetta, dormirai se la tua esistenza va a rotoli. Dormirai nel tuo letto e in cento altri letti stranieri, sconosciuti, comodi, scomodi, troppo duri, troppo morbidi, sottili, bitorzoluti, troppo pieni o insostenibilmente vuoti. Dormirai nel pieno silenzio primordiale, dormirai anche nel caos più totale. Ti addormenterai nei suoni della natura, tra le braccia di tua madre, sul petto di tuo padre, aggrappata alla mia schiena, con la testa sul tavolo della cena. Dormirai in movimento mentre sarai trasportata da un posto all’altro, dormirai in cielo mentre l’aereo affonda nelle nuvole. Dormirai se il mondo starà tranquillo, ma dovrai dormire anche tra guerre e terremoti.
Dormirai bene, male, beatamente, a singhiozzi. Ti addormenterai piangendo disperatamente o dopo una lunghissima risata.
Avrai lunghe notti buie e serene, oppure popolate di personaggi strani creati dalla tua mente.
Nel sonno farai cose incredibili che poi non ricorderai, cercherai di parlare, cantare, ballare, penserai di cadere, morire, precipitare, mentre il tuo corpo sarà sempre lì, al sicuro tra le coperte.
No, bimba mia, non voglio raccontarti favole della buona notte. La vita intera è una favola che ti accompagna ad una buona notte.
Io voglio raccontarti storie di un buon risveglio.
Voglio essere lì ogni mattina, quando aprirai gli occhi, a raccontarti che cose incredibili e sorprendenti può riservarti un giorno di esistenza.
Io voglio che la tua mente, il tuo cuore e il tuo animo siano pronti e aperti a un giorno nuovo e a quello che la vita gli avrà riservato. Perché la vita mette ogni giorno qualcosa in serbo per noi e sta solo a te decidere se prenderla o meno.
E allora, ascolta ogni mattina qualcosa, un pensiero, una parola, che ti dischiuda al giorno che ti si stende davanti. Ascolta come una giornata, se battuta piano, con un colpetto, sia esso una parola, una frase, una storia, possa risuonare o risplendere, come un tuorlo di luce, un seme di racconto, un rintocco di nota, addormentati dentro un guscio sottile, liscio e opaco.
Ascolta come in un’esistenza umana sono contenute in bozzolo infinite possibilità e, se non potrai averle tutte, almeno potrai conoscerne tante, potrai scoprire quanto l’essere umano si è ingegnato a modellare questa materia informe e riottosa che è la vita, facendone le cose più impensabili e strabilianti.
E scoprirai che anche tu potrai fare tutto questo, potrai cambiare la tua vita, manipolarla, colorarla, popolarla, portarla in giro per il mondo, condividerla, raccontarla. Oppure potrai non farne niente, prendendola così com’è, restando a guardare dove porta questo fiume, ma allora potrai osservarla a pieni occhi, comprenderla a mente aperta, non farti sfuggire nessun suono, nessun colore, non farti sfuggire, cosa ancora più difficile, nessun altro eccezionale essere umano, godere di tutto quello che esiste e che è esistito, che è stato creato o disfatto. Essere curiosa della goccia di pioggia e del campanile di una chiesa, trattenere il respiro di fronte ad un’alba o piangere davanti a un dipinto, far danzare l’anima al suono di una musica, far canticchiare il cuore al tocco del sole del mattino.
Voglio raccontarti queste storie perché nulla si perda della straordinarietà dei tuoi giorni, perché tu non dia per scontato neppure un fiato umano o il faticoso trasporto di una briciola della formica al suo formicaio.
Non mi importa quello che farai da adulta, non mi importa se amerai il tuo lavoro, se girerai il mondo, se sarai bella o ammirata, io voglio solo che il tuo cuore sia sempre aperto e coraggioso, nulla ti deve far paura, neanche la paura, devi conoscere il tuo animo e il tuo corpo e sapere che non li conoscerai mai abbastanza, devi sapere, anzi aspettarti, che fallirai, fallirai molte volte, ma questo non ti deve preoccupare. Tu puoi sempre riprovare o ricominciare daccapo.
Non giudicarti. Non essere arrogante o superba, ma non essere nemmeno il nemico di te stessa.
Esplora la tua vita, imbocca tante strade e lasciale pure se non ti soddisfano, se invece trovi una strada che ti piace, percorrila, vai sempre avanti e vedi dove porta. Se è una strada chiusa, almeno lo avrai scoperto da sola e avrai fatto tesoro del cammino.
E guarda sempre gli altri uomini, no, non per prenderne esempio, anche quello, se trovi qualcuno che ti ispiri veramente, ma tenendo sempre ben presente che ogni esistenza umana è irriducibilmente diversa e che tu non potrai mai diventare un altro né un altro lo potrai totalmente comprendere. Guarda gli uomini per conoscerli.
Condanna le azioni cattive e allontanati da chi le compie, rallegrati delle azioni buone e loda chi le fa. Ma non giudicare mai gli altri uomini, vivere la vita è una faccenda veramente complicata ed è facile sbagliare, è facile anche perdersi, e, a volte, recuperarsi.
Cerca di non disprezzare mai nessuno, specie se è oggetto di disprezzo generale. Interrogati sempre su quel che ha fatto e se vale la tua critica.
E, d’altra parte, non farti affascinare da qualcuno solo perché oggetto di apprezzamento universale, guardalo sempre nell’intimità dei rapporti umani. Immaginatelo mentre parla col droghiere o con la cameriera, mentre mette a letto i figli o chiacchiera con la moglie. Anche quelli tra gli uomini che fanno le cose più eccezionali sono fatti come te e si ritrovano a dover affrontare le stesse situazioni della vita, sono felici se sazi, sono irritabili se costipati, hanno parenti rompiscatole e sono tristi se il figlio quel giorno non gli rivolge la parola.
Cerca sempre l’umanità negli altri uomini, non ti arrestare al “professore”, “politico”, “scrittore”, “artista”, ma va a cercare l’uomo e vedi un po’ com’è. Avrai sorprese eccezionali: scoprirai che esseri meschini o abietti hanno creato opere di una bellezza e di una purezza struggenti e troverai un animo enorme e una mente socratica in un macellaio o in un bidello.
Gli uomini non sono mai un blocco unitario da poter bollare o schedare.
Ti diranno: quello è cattivo perché è andato in galera, quello è un pervertito perché ama uno del suo stesso sesso, quello è pericoloso perché è nero. Non credere mai a queste equazioni troppo semplicistiche, ma ragiona con la tua mente e servendoti di quello che vedi. Se una persona è cattiva o pericolosa, non desiderare di farle del male ma tienitene lontana e fai tutto quello che puoi per evitare che faccia del male a te o alle persone che ami.
Ascolta le opinioni e i giudizi degli altri ma non ti accontentare mai, non ti riposare sulle loro parole o sulle loro motivazioni, cercane sempre di tue.
Io non ti dirò che c’è un modo giusto o sbagliato in cui vivere la vita. Non penso sia sbagliato credere in dio e non penso sia sbagliato non crederci, non penso sia male amare una persona del tuo stesso sesso e neanche credo sia sbagliato desiderare un matrimonio e una famiglia tradizionali, non credo sia sbagliato cercare la stabilità economica ma non penso neanche sia sbagliato inseguire caparbiamente i propri sogni squattrinati.
Tu sei un essere umano libero, figlia mia, ma prima di lasciarti correre e scorrazzare per questa vita, io ti voglio dare dei consigli.
Non potrei lasciarti, indifesa, in balia di questo marasma di eventi e di persone che è l’esistenza. Se un valore può avere la mia vita prima di te, è quello di raccontarla, passarla in qualche modo a te, poi starà a te trarne qualcosa.
Non nego che gli uomini possono fare molte cose cattive, a sé stessi e agli altri, volontariamente o involontariamente, e tu devi essere pronta a capire quando ti stanno facendo del male, o quando tu stessa ti stai facendo del male, a prevenirlo, a difenderti, a curarti le ferite, a non odiare per paura, ma ad arrabbiarti senza timore quando ti è stato fatto un torto o quando è stato fatto ad altri davanti a te.
E allora ci sono alcune, pochissime, cose che posso dirti, per aiutarti in questa corsa difficile. Perché? Perché anche la tua mamma è stata aiutata da tante persone quando iniziava i suoi primi passi, ma anche poi, nel corso di tutta la sua vita.
E questa è la prima cosa che devi imparare. Non temere di farti aiutare, non temere di apparire debole o incapace agli occhi degli altri, siamo tutti incapaci prima di imparare qualcosa, siamo tutti deboli in certi periodi dell’esistenza.
Non temere di chiedere aiuto, ma non aspettarti che altri risolvano i tuoi problemi. Fatti insegnare a risolverli, fatti mostrare come si fa e, se non hai capito, fattelo mostrare ancora.
Credi profondamente nella solidarietà tra gli uomini perché, è vero, ci sono tante persone egoiste, menefreghiste, malvagie, maligne, indifferenti, calcolatrici, ma ci sono anche tante altre pronte ad aiutarti sinceramente e disinteressatamente. Riconoscile, evita le prime ma ricorda sempre che esistono anche le seconde.
E, in cambio, sii sempre pronta ad aiutare chi ti chiede aiuto, nei limiti delle tue forze e capacità.
Non cadere nella tentazione di salvare tutto il mondo. La gente morirà intorno a te, soffrirà la fame, verrà ferita, ammazzata, ingiustamente imprigionata, picchiata, umiliata. E questo ti farà arrabbiare, soffrire, indignare. Non puoi aiutare tutti, tu devi prenderti cura prima di tutto della tua vita e delle persone che ami e che dipendono da te. Ma, a chi ti avvicina, non negare mai un atto di umanità, fosse anche solo per dirgli che non puoi fare niente per lui, fosse solo un sorriso di scuse o un augurio di riuscire e di trovare fortuna.
Non pensare mai che i gesti di vicinanza, di solidarietà, di comprensione, di supporto, siano poca cosa, se senti di farli, falli. Saranno bene accetti e, se non lo saranno, almeno avrai avuto il conforto di non avere ignorato il dolore di un tuo simile.
Non avere paura come dei sentimenti positivi, di amore, di stima, di affetto, così di quelli negativi, di rabbia, di invidia, di gelosia.
Sii preparata a provarli, perché fanno inevitabilmente parte dell’animo umano. Anche i santi con le aureole, Gandhi o i filosofi greci dalle barbe folte, li provavano continuamente.
E allora, quando li provi, non negarli, non ignorarli, ma vanne a fondo, cerca di capirli, di capire perché li stai provando, di conoscerne le ragioni e vedere se sono reali o se sono frutto di una distorsione del momento o di un errore di giudizio. E, se sono sbagliati, non provarne vergogna, ma cerca di dominarli.
Non vergognarti mai di quello che provi o senti, nel bene o nel male, perché provare e sentire emozioni, negative o positive che siano, è il senso della vita umana.
Ma non fare mai che i sentimenti negativi che provi ti spingano a compiere azioni cattive, a fare del male ad altri o a odiare qualcuno ingiustificatamente.
Vedi, la bambina che stai invidiando in questo momento, perché ha un giocattolo che tu vorresti, o un vestito più bello del tuo, o perché pensi che sia più bella o più intelligente o abbia più talento di te, perché credi che abbia una vita più facile o più felice di te, potrebbe avere cento altre cose brutte che tu non vorresti mai, potrebbe desiderare tanto dei genitori attenti e affettuosi che invece non ha, potrebbe avere difficoltà a fare delle cose che per te sono naturali e semplicissime, potrebbe non provare nessuna gioia ad avere tutti quei giocattoli, potrebbe ritenere di essere bruttissima, di avere un naso sproporzionato, di essere stonata quando canta, e potrebbe addirittura invidiare te, per quei disegni bellissimi che fai, o perché sei capace di scoppiare a ridere ad altissima voce in mezzo al cinema, o di fare facce buffe davanti a tutti.
Devi essere contenta di quello che hai e rassegnarti a non avere quello che non hai. Ma se c’è qualcosa che non hai e che desideri ardentemente, senza posa, allora non odiare chi ce l’ha, ma fai di tutto per ottenerla. Se vuoi diventare una cantante d’opera e non hai una grande voce, non odiare chi canta senza sforzo come un usignolo, sono doni fisici che uno ha senza averli chiesti, oppure sono il frutto di duro lavoro, ma cerca di migliorarti, prendi un maestro, studia, impegnati, fallo per la gioia di farlo, sii consapevole di non poter essere la Callas, ma gioisci pienamente e senza ombre delle belle cose che riuscirai a creare.
Qualsiasi piccola, minuscola, aggiunta di bellezza a questo mondo è un atto di generosità, un dono che stai facendo a te stesso e all’intera umanità.
Goditelo quando accade e fa che accada, ma sappi che, una volta esaurito, dovrai ricominciare a cercarlo sempre daccapo, con impegno, sforzo, a volte sacrificio.
Una volta ottenuto il frutto del tuo lavoro, del tuo impegno, della tua arte, non pensare però subito che dovrai ricominciare tutto daccapo o che avresti potuto fare meglio o che avrebbe potuto essere migliore, ma gioisci sinceramente, con orgoglio, di quello che hai fatto. Sii contenta di te, perché avresti potuto non fare nulla quel giorno o perché sarebbe potuto essere molto peggiore.
Non ti ci vuole molto per iniziare questa vita, bimba mia. Curiosità e rispetto per gli altri e per te stessa, amore da chiedere e da dare, consapevolezza della possibilità di errore tua e degli altri, consapevolezza dei sentimenti brutti che proverai o del male che occasionalmente procurerai, capacità di dispiacerti, pentirti, chiedere scusa, ma capacità anche di provare gioia per la vita, orgoglio per quello che fai, stima di te stessa.
Niente è troppo piccolo o troppo grande per l’animo umano, sii lieta di una giornata di sole come della patetica di Beethoven, di un pezzo di prato come della Vergine delle rocce di Leonardo, di un bel voto a un tema a scuola come dei Fratelli Karamazov di Dostoevskij, di una conchiglia trovata in spiaggia come dell’amore della tua vita, di una poesia recitata da tuo figlio come della promozione al lavoro.
E quando ti accorgerai di stare correndo troppo, o che il tuo mondo sta correndo troppo davanti a te, abbi la forza e il coraggio di fermarti.
Fermati spesso, fermati anche per cose che sembrano senza importanza: ferma la macchina sulla nazionale se vedi dei fiori bellissimi al margine della strada; se una volta avrai tirato tardi fino alle 5 di notte, non andare a dormire, ma fermati a vedere l’alba; se starai lavorando, o con la testa persa nelle tue preoccupazioni, fermati a sentire le chiacchiere di un amico che ti chiama.
Non perdere mai la capacità di fermarti ad ascoltare e a guardare, sarà una delle più preziose della tua vita.

E sì, cerca l’amore nella tua esistenza, ma cercalo prima di tutto nel tuo cuore e poi tra le persone. Non avere paura di mostrarlo, non avere paura che possa essere rifiutato. L’amore è qualcosa di così bello ed eccezionale che è da ammirare di per se stesso, per la sua sola esistenza e tu sei da ammirare per la sola capacità di provarlo e conservarlo. Non importa che cosa ne venga poi dall’amore, quanti mali e quanti beni, e in che percentuale, tu perseguilo, nutrilo, amalo, siine fiera. L’amore non è da tutti, anche se è alla portata di tutti.

lunedì 7 settembre 2015

Una vita all'Ikea



“Dove corri?”
“…”
“Non sai parlare?”
“…”
“Guardami almeno! Che stai cercando là in alto?”
“mmm”
“Ehi bambina, dove stai andando? Dove vai?”
Stavo inseguendo il mio topo. Non potevo fermarmi a parlare con quel bambino, l’avrei perso.  Avevo visto quel topo volare lievemente reggendosi sulle due zampe su una lanterna giapponese di carta di riso bianca e avevo preso a seguirlo. Continuavo a correre col naso all’insù quando sbattei su due ginocchia ossute.
“Ehi” disse un ginocchio.
“ Attenta a dove vai” disse l’altro risentito.
Dovevano essere gemelle. Parlavano con la stessa voce. Cercai di spiare nel mezzo per ritrovare il mio topo ma loro si serrarono.
“Ti sei persa?” Disse una, scocciata.
Scossi la testa vigorosamente tentando di scartare a destra per superarle, mi sbarrarono la strada.
“Dove sono i tuoi genitori?”
Mi fermai. Cessai tutti i tentativi di superare le ginocchia e alzai la testa a fissarle nelle rotule, seccata.
“Sono morti” dissi con cattiveria.
Le ginocchia ebbero un fremito. Strinsi gli occhi e alzai un sopracciglio. “Oh sì, sono morti orribilmente. L’ultima volta che li ho visti erano distesi, fermi immobili, avevano gli occhi chiusi ed erano rigidi come stendipanni.”  Le ginocchia si mossero a disagio, non volevano sentire altro. Io ridevo malignamente dal basso. “ Prima si agitavano a destra e sinistra, destra e sinistra, poi i petti si sollevavano come se volessero staccarsi dal corpo, le gambe scalciavano e battevano i pugni sul materasso. Oh soffrivano orribilmente. Poi più niente. - feci una pausa ad arte- Allora, come intendete prendervi cura di me?” Le ginocchia cedettero e si divaricarono. Sorrisi sprezzante e passai oltre vittoriosa, riprendendo la mia caccia al topo.

Bagno per famiglie

Avevo visto il mio topo svoltare a sinistra, girai l’angolo e mi trovai in una zona chiusa. Non c’era più strada, non c’era topo. C’era una porta e un uomo con i capelli unti ritto nel mezzo a fissarla. “Nnnnn nnnnnnnnn”, sentivo un basso raspio di sottofondo e sperai fosse il mio topo ma mi resi conto che era quell’uomo che farfugliava sommessamente. Avrei voluto chiedergli del topo, mi misi di fianco a lui aspettando e intanto guardai meglio la porta, sopra c’era il disegno di tre omini, due grandi e uno piccolo e una scritta, BAGNO PER FAMIGLIE.
“AH!” urlò d’un tratto l’uomo sudaticcio, sobbalzò e poi riprese a biascicare“nnnnnn nnnnnnnnn.”
Ero stanca di aspettare, “Scusi- gli dissi a voce un po’ più alta del normale- scusi ha-visto-un-topo-entrare?” “ NON POSSO!” gridò lui e finalmente si girò a guardarmi. Aveva gli occhi così tondi che probabilmente le palpebre non riuscivano a coprirli tutti e dei capelli appiccicati che partivano da metà cranio e colavano fino alle spalle. L’uomo allargò ancor di più gli occhi col rischio che rotolassero via e lo prese un minuscolo tremito, guardò me, poi guardò la porta, poi di nuovo me. Indicò l’omino in pantaloni che tendeva un braccino blu a quello più piccolo e mi tese una mano. Non la presi e continuai a fissarlo negli occhi. “S-mettila d-i f-issarmi” disse infine abbassando  la mano, mentre la faccia gli si torceva a scatti. “ Le ho chiesto se ha visto un topo bianco entrare.” “ Lì non può entrare” fece con voce aspra. “E perché?” “Perché potrebbe entrare solo con una moglie topo e un topolino. Quello è un bagno per famiglie.” Sospirò.  Mi fece pena, chiesi il più dolcemente possibile “ Neanche tu puoi entrare?” scosse la testa guardando il pavimento. “Non hai una famiglia?” annuì al pavimento. “Perché non la vai a cercare?” Dissi stendendo un braccio verso l’imbocco dello spiazzo. Mi guardò spaventato. Poi i suoi occhi si ritirarono un po’ più dentro e riprese a fissare la porta tendendo un braccio a destra e uno a sinistra come faceva l’omino blu verso il suo piccolo e l’omino con la gonna. Mi arrabbiai. “Sei uno stupido! C’è tanta gente che cerca un omino in pantaloni, potresti servire a tante persone e invece te ne stai lì a fissare quella stupida porta! Non ci puoi entrare, beh ecchissenefrega! Vai a cercare altre porte! Muoviti!” Strinse gli occhi dolorosamente “ Mio padre e mia madre sono lì dentro, quando ero piccolo presero mio fratello per mano e entrarono. Io non ce l’ho fatta, non sono riuscito ad entrare. Nnnnnnnnn nnnnnn non Posso! NON POSSO!” Si torceva in spasimi e sputava Non posso come se ce li avesse tutti sullo stomaco. Lo presi ai gomiti, dove arrivavano le mie braccia e cercai di calmarlo “Non vuoi, forse non vuoi.” Prese a piangere piano, con le lacrime che colavano giù per traboccamento, senza partecipazione o sforzo. “ Avrebbero dovuto prendere anche te, perché non ce la facevi da solo. Non è colpa tua, non è colpa tua.” Lo calmai accarezzandogli il braccio, lui mi guardò grato, abbozzò un sorriso e mi serrò la mano con una stretta di ferro. “ Ahio!” feci guardandolo spaventata dal basso, lui continuava a sorridere, “Lasciami, io non vengo con te.” Gli dissi cercando di sfilarmi via la sua mano. “Aspettiamo.” Disse lui riprendendo a fissare la porta e l’omino con la gonna. “ Io non voglio aspettare- feci agitandomi e torcendomi- io devo andare, non voglio stare qui ferma, sto cercando una cosa.” Ma l’uomo sembrava di granito. Mi contorsi, piansi, urlai. Lui non guardava neanche dalla mia parte. Presi a insultarlo, a dirgli cose a raffica senza sapere quello che dicevo “ Sei un mostro, pensi solo a te stesso, non pensi a me?Io devo inseguire il mio topo. Non t’importa di nessuno, solo di te! Ho capito perché i tuoi genitori ti hanno lasciato qui!” La mano si spalancò come una bocca. Io mi misi a distanza di sicurezza massaggiandomi il palmo. Lui si rannicchiò in sé stesso, facendosi piccolo “Non mi hanno lasciato- disse iniziando ad afflosciarsi a terra- mi tenevano.” Io corsi via “ Mi tenevano!” mi urlò dietro “ Sono io che ho staccato la mano!” Corsi più veloce che potevo, non vidi neanche dove andavo. Mi fermai solo quando nella mia testa non sentii più il raspare di nnnnnnnnnn.

Casa di 40 mq

“Che state facendo?”
Lui sollevò la testa appena per vedermi. Poi la riabbassò sul viso di Lei. Lei riusciva a guardare solo lui.
 “Ci amiamo, bimba”
Mi avvicinai, “Perché?”
Lui guardò di nuovo lei, lei continuava a guardargli la fronte, le ciglia, gli occhi.
 “Perché lei non è me, bimba. Me la sto riprendendo.”
“Che significa?”
“ Significa che c’è stato uno sbaglio, lei avrebbe dovuto essere me e io lei, bimba. Avremmo dovuto essere insieme. Qualcuno ci ha separato, me la sto riprendendo e lei prende me.”
 Li guardai affascinata, erano bellissimi. Tutto quel nudo,  pelle che non se ne vede mai così tanta, fa l’effetto di tutto un cielo libero da palazzi. Lui era steso sopra di lei ma a lei sembrava non pesasse, lei continuava a fissargli il collo, le spalle, i capelli, accarezzandoli.
“E perché fate così?” “Perché se me la mangiassi non ce ne sarebbe più.” Scossi la testa senza capire, lei gli passava la mano tra i capelli. “ Bimba questa è la strada più diretta per portare me dentro di lei, se la aprissi a metà non entrerei dentro di lei, ma così oh sì. Questa è la strada per sentirla dentro.” Lei sorrise dolcemente.
“ Ma non ti basta fuori? E’ così bella.”
“Fuori è niente. Dove è il cuore, bimba?”
“Dentro.”
“(Fuori è niente. )Quella è la sua parte più bella.”
Sorrisi senza poterne fare a meno e me ne andai quando loro ripresero a muoversi insieme, danzandosi dentro.  E quando lei si voltò a guardarmi aveva lo sguardo pieno, e dentro vidi lui.

Casa di 30 mq

Dopo qualche metro c’era la casetta da trenta mq, dietro le vetrate senza tende quattro occhi spiavano gli amanti e denunciavano due disgusti. Quando mi avvicinai si fissarono su di me. “Entra” “Entra, entra” si parlarono sopra due vecchie voci. Tacquero entrambe. La casa stava stretta, le due vecchie erano qualcosa che il chiuso consumava insieme all’aria. “Hai visto quei due?” “Che vergogna, che vergogna.” “Certe cose una bambina non dovrebbe vederle.” “Perché?”chiesi “Santo cielo, santo cielo” “Perché no e basta, certe cose una bambina non dovrebbe vederle.”  Alzai le spalle. “Siete molto vecchie.” Dissi tanto per dire qualcosa. “Non come il cucco, non come il cucco.” “Chi siete?”chiesi,  guardando nella penombra lo squallore polveroso. “ Siamo le Signorine Misericordia, bambina” “Strano nome.” “ E’ il nostro nome.”  “E che fate?” “Aiutiamo la gente.” “Non vedo gente.” “Aiutiamo la gente che può entrare qua dentro” Mi guardai intorno. “E’ uno spazio piuttosto piccolo.” Commentai. Si guardarono piccate. “Le persone che possono entrare qua dentro sono quelle che meritano aiuto” disse una, sostenuta “Non devono essercene molte” “Sono quelle degne, quelle degne” disse l’altra. Strinsi le sopracciglia, “ Ma le persone che hanno bisogno d’aiuto, generalmente non sono quelle indegne?”  azzardai. Si guardarono di nuovo negli occhi, come per darsi pazienza. “No bambina, le persone indegne non hanno bisogno di niente.” “Perdizione eterna, eterna. Sono condannate.”  Disse l’altra agitandosi. “ Non hanno bisogno di noi” aggiunse la prima con voce strozzata.  Mi mordicchiai il labbro di sotto, riflettendo. Le Signorine intanto apparecchiavano un tavolo che sembrava un altare. “Coltello a destra.” Borbottava una. “Non bestemmiare” masticava l’altra. “L’inferno a chi fa peccato” andavano avanti e indietro dalla tavola alla cucina con passo barcollante. Sul tavolo non posavano nulla, “ l’uomo propone e dio dispone” diceva una e tornava di là. “chi dà e ritoglie, il diavolo lo raccoglie” arrivava l’altra e poi riscompariva. Quando ebbero finito e si risedettero la tavola era vuota e squallida come prima. “E quante persone avete aiutato?” Si guardarono sbattendo gli occhi “Nessuna.” “Nessuna, nessuna” dissero nervosamente l’una sull’altra. Tacquero entrambe. “Cioè, ci avete provato e non ci siete riuscite?” Mossero la testa “Non è venuto nessuno.” “Cioè non ci avete mai provato ad aiutare qualcuno?” “Non sono venuti.” Disse una, dura. “Non ci entravano, non ci entravano.” Borbottò l’altra. “Ma siete le Signorine Misericordia! Non potevate andarli a cercare?” “Dovevano  entrare qui dentro.” “Ma se voi foste andate a cercarli, forse li avreste convinti a entrare qui dentro! Forse non ce la facevano, o stavano male, o non sapevano che voi eravate qui per aiutarli!” feci accorata. “Non alzare la voce” fece una. “Schiena dritta e gomiti bassi” aggiunse l’altra. Continuavo a fissarle in silenzio, una scosse leggermente il busto e disse sussiegosa “Siamo le signorine Misericordia.” “Aiutiamo la gente” aggiunse l’altra. “Lo so, questo l’ho capito. Allora potete aiutare me?” Si guardarono stupite. D’un tratto persero sicurezza. “Vuoi la salvezza eterna?” provò una timidamente. Scossi la testa. “Vuoi redimerti dal peccato?” Azzardò l’altra. Feci ancora no, “Vorrei essere consolata.” Dissi con labbro tremulo, guardando il pavimento e rendendomi più patetica possibile. Le sorelle si scambiarono uno sguardo terrorizzato sopra di me. Mi sentivo triste e sola, mi facevo tantissima pena, ero la più sofferente dei sofferenti, la più bisognosa dei bisognosi. “Vi prego aiutatemi” dissi piangendo su me stessa. “ Sono stanca, ho sonno, ho fame. Sono tanto triste e non so perché. Ve l’ho detto che miei genitori sono morti orribilmente? Mi sento spersa. Non riesco a trovare quello che cerco. Mi sento inutile, inadeguata, non ho guide, non ho punti di riferimento, non credo a nulla. Sono spaventata.” scoppiai a piangere vinta dalla pena per me stessa e mi sedetti per terra coprendomi la faccia. Le due vecchie si irrigidirono. Io spiavo tra le lacrime aspettando un abbraccio o una carezza, che mi dessero una parola dolce, o un dolce da mangiare. Invece improvvisamente le loro facce si deformarono, erano stravolte dalla rabbia e dall’odio. “Tu essere immondo!” strillò una. “ Piccola peccatrice ripugnante.” “Essere perduto!” “ Fuori di qui, persona indegna!” Si misero a gridarmi contro e a spingermi fuori dalla casa. “Senza guida!” “Senza punti di riferimento!” Cercavo di parlare, di spiegare,  ma non mi ascoltavano. “Via di qui, vagabonda” “Vieni ad insozzare la nostra casa?” “A prenderti gioco di noi?” “Non ci faremo trascinare nel tuo fango” “Torna dalla tua razza maledetta, miscredente” “Bastarda, figlia di nessuno, senzadio” e mi sbatterono fuori, chiudendo la porta logora.

Casa di 60 mq

“Oh povera cara, povera piccola, stella mia.” Mi strinse qualcosa di caldo e profumato e mi accarezzò i capelli. Non resistetti e scoppiai a piangere. Piansi mentre mi faceva rialzare, piansi mentre mi metteva un braccio intorno alla vita e mi faceva camminare, piansi quando ogni tanto mi passava una mano sulla guancia o mi baciava gli occhi, piansi quando mi fece entrare in casa. Fu uno dei pianti meglio riusciti della mia vita. Quando mi fui calmata le chiesi chi fosse, mi rispose con una voce soffice che avvolgeva tutte le parole “Sono una mamma, tesoro.” Chiusi gli occhi a godermele quelle parole, come se avessi appena ingoiato qualcosa di squisito. Una mamma, finalmente. “Mi piacciono le mamme” feci a occhi chiusi. “Ne sono contenta” disse lei con un sorriso dolcissimo. L’aria intorno al suo corpo era calda e vibrante, il suo seno era morbido, la sua pancia era morbida, la pelle del volto era liscia di velluto. Alzai gli occhi e vidi la mamma che mi guardava. Le sorrisi, mi sorrise. Dietro di lei, sotto una cupola di vetro chiaro, sgambettavano, giocavano, piangevano e ridevano dei bambini. E tutti assomigliavano a lei o meglio lei assomigliava a tutti. “Sono i tuoi figli?” dissi avvicinandomi stupita.“Tutti pezzi del mio cuore.”  Schiacciai la faccia sul vetro, i bambini mi vennero vicino, avevano l’aria felice. Feci delle boccacce e scoppiarono a ridere. La mamma li guardava amorosamente, le sue espressioni cambiavano continuamente al mutare degli stati d’animo dei bambini. “Perché stanno lì dentro?” “Perché devono crescere, il mondo strappa quel che è piccolo e delicato.” Guardai meglio i bambini, alcuni avevano le dimensioni di adulti ma non me n’ero accorta perché erano come tutti gli altri, con la pelle liscia, gli occhi luminosi e innocenti. Solo che erano grandi. Strinsi le sopracciglia. “Tu li picchi mai?” Mamma e figli mi guardarono scandalizzati “Oh santo cielo, no.” “E li sgridi? Gli dici cose che potrebbero ferirli?” Mi guardò con infinita compassione. “Ma no, tesoro mio. Perché dovrei?” Cercai di trattenermi ma mi stavo innervosendo e non capivo neanche perché in tutta quella dolcezza dovessi irritarmi così tanto. E poi capii. L’aria era irrespirabile, totalmente rarefatta. Non c’era l’odio, è importante l’odio, non c’era il rancore, mancavano l’ambizione, l’invidia, la solitudine, l’indifferenza, l’estraneità, la varietà. La varietà, la tristezza, il rischio. C’è chi mette al mondo esseri umani e chi solo figli. Non si può creare un altro uomo per talea. Mi guardai intorno smarrita e poi vidi uno di quei bambini cresciuti che muoveva le labbra senza emettere suoni. Sentivo il suo labiale. Quella donna non fa altro che accrescere sé stessa, rendersi infinita nel tempo e nello spazio. Non vuole che soffriamo perché non vuole soffrire, non vuole che conosciamo altro che lei per paura di perderci. “Tu non sei una vera mamma.” Dissi senza riuscire a trattenermi “se no apriresti quella campana e soffriresti come un cane permettendo ai tuoi figli di soffrire.” Sgranò gli occhi. C’è chi si copre di figli per non vedersi. “Tu! Tu ti copri di figli per non vedere te stessa. Vorresti insegnare ai tuoi figli ad essere te perché in tutta la tua vita tu non hai imparato a farlo, non sei stata capace di sentirti completa.”  La mamma prese a piangere dolorosamente. E ora dalle il colpo finale, facci uscire. “No. Cresci. Fallo tu.” L’adulto bambino scoppiò a piangere rumorosamente e a battere i pugni per terra. Ma la mamma non corse a consolarlo, restò ferma a piangere silenziosamente. Era terribile vederla piangere, una mamma non mostra mai sofferenza, cede al dolore solo quando è enorme da spezzargli il cuore e fluire via. La abbandonai col cuore pesantissimo e l’idea di essere ingrata, impura, spezzata. Un dolore che mi sembrava quasi necessario. Come un peccato originale di cui ci si macchia inevitabilmente a un certo punto dell’esistenza.

Zona poltrone

“Si sente bene?”
“Uh?” l’uomo aprì gli occhi per un istante e riprese a dormire. Gli girai un po’ attorno poi parlai di nuovo“Sta dormendo?” Grugnì qualcosa. “Lo sa che fuori è già primavera?” Aprì solo un occhio e strizzò l’altro. “Primavera hai detto?” “Proprio così” annuii seria. “Devo aver dormito per almeno due liquidazioni e quattro svendite.” “Eh?” “Lascia perdere.” Il vecchio si raddrizzò lentamente sulla poltrona e si mise a massaggiarsi gli occhi accuratamente allungando le palpebre verso il basso e facendo facce strane. Scoppiai a ridere di gusto. Mi stava simpatico. “Dacci un taglio, ienetta.”  “Mi sta simpatico” gli dissi. “Uhm” annuì distrattamente guardandosi intorno. “Oh santo dio, sono ancora qui, loro coi figli e i figli dei loro figli.” “Chi?” “Chi, chi!” s’innervosì “Tu, i tuoi genitori, i loro genitori, i cani e dio solo sa chi altro, a fare sempre le stesse cose.” Guardai la folla disordinata tutta intorno che ci ignorava “Che facciamo qui?” Il vecchio si raddrizzò a guardarmi “Come?” mi chiese puntandomi addosso la faccia. “M-mi mette un po’ a disagio.” “Cosa hai detto prima?” “Ho detto perché siamo qui” “Perché…” sospirò come assaporando quella parola e si gettò sullo schienale chiudendo gli occhi. Aspettai un po’ , educatamente. “Allora?”  “Usi troppi punti interrogativi, bambina. Non hai paura di finirli?” Strinsi le labbra fissandolo. Lui mi spiò attraverso le palpebre calate. “ Perché non fai come qualsiasi altro essere umano a questo mondo e non mi ignori?” Gonfiai le guance “Voglio sapere.”  Il vecchio si sollevò, lo schienale della poltrona accompagnava tutti i suoi movimenti,  “Tu vuoi sapere? Tu piccolo insignificante esserino sogna-saldi? TU vuoi sapere?” scoppiò a ridere. Strinsi gli occhi minacciosamente. Il vecchio si lasciò scappare un po’ di stupore. “Evidentemente si. E cosa vorresti sapere di grazia? Dove è il bagno? Dove si vendono le stoviglie? Se è migliore il tefal o l’alluminio?”  “Lei ha detto che stiamo ancora tutti qui, cosa ci facciamo qui?” “Non lo sai? Non sei convinta di vivere la vita, tu come tutti quegli altri?” Scossi la testa “Non sono convinta di niente.” Parve riflettere profondamente, poggiò le mani sui braccioli “ E cosa dicono i tuoi genitori di tutte queste domande?” “…sono morti…orribilmente.” Dissi esitante. Lui mi fissò in modo ancora più penetrante “Sono morti eh? Fine scontata.” “Come!” dissi un po’ delusa e un po’ offesa “Non prova pena per me?” “No, perché dovrei? Possono farti molto più bene da morti che da vivi, credimi. Quanto a loro, sono morti buon per loro, si sono tolti un pensiero.” Aggrottai la fronte, curioso punto di vista. “E- e lei cosa intende fare per prendersi cura di me?” azzardai. Si sollevò seguito dallo schienale “Bambina,ti assicuro che non ho nessuna intenzione di prendermi cura di te.” “ah- feci un po’ spiazzata- ok.” “Ma veniamo a noi- disse il vecchio intrecciando le dita- tu vuoi sapere, non è così? E vuoi che il sapere te lo trasmetta io.” Feci sì con la testa. “Male.” Mi bacchettò. Smisi subito di scuotere la testa. “Credi forse che il sapere sia una moneta che si passi da una mano all’altra?” Lo guardai incapace di rispondere. “Il sapere è qualcosa di organico, di umano. Lo devi secernere, te lo devi produrre, si deve staccare dai tuoi organi, usare i tuoi tessuti. Non puoi certo aspettarti che ti arrivi così dall’esterno e tu sia pronta ad accoglierlo senza alcuno sforzo. Imparalo per la prossima volta.” Annuii seria fingendo di aver capito. All’improvviso mi fissò negli occhi “E ora vuoi dirmi dove sono i tuoi genitori?” Lo guardai smarrita, “Eh?” “Dove sono.” Ripetè.  Sospirai. “Al reparto notte.” “E perché fingi che siano morti?” “… Per imparare.” Dissi a voce bassa. “Come?” “Per imparare- ripetei più forte- Quando hai i genitori morti pensi a un sacco di cose e la gente risponde alle tue domande.” “Santo dio, bambina. La morte non insegna niente, la morte cancella. Sotterra. E’ la vita che deve insegnare ma nessuno pensa di doverla stare a sentire. Tutti pensano solo al modo migliore di viverla. Ma non senti come è tautologico? La vita non si deve vivere, già vive. Se vivi la vita è come se ripetessi un’azione, facessi qualcosa che contemporaneamente si sta già facendo. Tu sogni un sogno? Stringi una stretta? Il sogno è già sogno senza dover essere sognato, la stretta è già stretta di per sé, puoi aumentarla, allentarla ma una stretta è stretta perché la si stringe. Se no non sarebbe tale. La vita è già vita senza dover essere vissuta. La vita vive, porca miseria. E’ per questo che durante la vita non si può solamente limitarsi a vivere, occorre fare altro.” Lo fissai con la bocca semiaperta. La cosa parve irritarlo. “Non so perché perdo tempo con questo animaletto.” Sbuffò e si rigettò sullo schienale fingendo di dormire. Strinsi le labbra dalla rabbia. “E come mai lei che sa tutte queste cose è finito dimenticato su una poltrona?” Corrugò la fronte. “Non risponde ora?” Sbuffò e si girò dall’altro lato.

Deposito scatoloni

Tutt’intorno gli scaffali dall’altezza di cattedrali gotiche si protendevano come costole gigantesche di un torace scheletrico, gli scatoloni buttati qua e là sembravano brandelli di carne passita che nessuno si curava di coprire. Quel luogo sporco sfoggiava il suo squallore e la sua bruttezza. Uomini erano buttati in mucchi di stracci agli angoli non preoccupandosi di rialzarsi, di dormire o stare svegli, di coprirsi. Io li guardavo intensamente ma tenendo gli occhi bassi, volevo vedere se veramente erano uomini come me, se erano nati da una madre anche loro, se erano stati bambini anche loro, e avevano bocche e nasi. Una donna mi veniva incontro dalla parte opposta zoppicando e borbottando qualcosa. Ogni tanto si fermava e si aggiustava la gonna lacera poi riprendeva a camminare. Era sporca, scura come uno di quei panni per la polvere e la sua voce era roca come se grattasse continuamente contro la gola. Mi feci coraggio e la salutai “Buonasera.” Mi guardò di traverso, storse la bocca e non si fermò. Deglutii, “C-cosa è questo posto?” , per un istante fissò i suoi occhi selvaggi su di me, sembrava pronta ad attaccarmi se non l’avessi lasciata in pace. “Perché vive quaggiù?” Lei girò sui tacchi e si inoltrò in uno dei tanti corridoi secondari, la seguii. Aumentò la velocità del passo e del borbottio. “E’, è un posto orribile, perché sta qui?” Si fermò e senza girarsi la sentii dire “Io sono questo posto orribile.” “Non è vero, lei è una persona non un posto.”Questo mi pareva scontato. “Perché sei qui? Tornatene di sopra. Non devi stare qui.” Mi stupii “Lei si preoccupa per me?” “No” disse secca “la tua vista mi disturba.” Presi un’espressione ferita. Degli inservienti in divisa scesero dal piano di sopra, caricarono uno di quegli enormi scatoloni senza curarsi degli uomini distesi agli angoli e ritornarono su. “Guardi! Di là si torna di sopra, perché non andiamo insieme? Lì c’è luce e tanta gente.” “Mi fa schifo di sopra” “Beh sempre meglio di qui. Questo posto puzza.” Si girò di scatto e quasi sbattei contro il suo naso, “Almeno non fingiamo di non puzzare.” “Quelli là, quelli ci spingono via. E non è che non puzzano. E’ che non hanno il naso.”

Lanterna bianca

E caddi nel bianco.

“E questo?”
“Questo è vuoto.”
“ Il vuoto è bianco?”
“…”
“Perché nel vuoto io esisto?”
“Tu non esisti se non nel vuoto. Se tutto fosse pieno non ci sarebbe spazio per te.”
“Ma io sono piena?”
“Oh no che non lo sei. Sei un recipiente di vuoto. Trabocchi di vuoto. Quasi non lo riesci a contenere, lo spargi qua e là.”
“ Ma è male essere vuoti?”
“Solo se credi di doverti riempire.”
“Non devo?”
“Oh no. Non devi.”
“Ma l’altra gente. Quella piena, è qui che viene a riempirsi?”
“Si.”
“ E di cosa si riempie?”
“Oh, un po’ di tutto. Amore, rimpianti, carità, rancore. Qui si trova tutto.”
“ E questo tutto è a buon prezzo?”
“Prende quello che dai.”
“Io non ho niente da dare.”
“Allora non puoi avere niente.”
“E le altre persone come pagano?”
“Oh dipende da quello che sono disposte a dare. Alcune danno il loro tempo, altre dividono la loro integrità. Altre perdono i valori, alcune cedono sogni, e vuoti, e aspirazioni. Ci sono delle persone che si riempiono a forza come tacchini imbottiti e vogliono riempirsi di tutto. Altre scelgono, qualcosa lo evitano, di qualcosa hanno paura.”
“Io non ho visto niente che mi piacerebbe avere.”
Aspettammo un po’ silenziosi, osservando il vuoto che si insinuava tra noi come vento. Riflettevo.
“Tornerò qui?”
“ La domanda è se da qui te ne andrai.”
“Uh non so, non si sta male. Sento un po’ la mancanza del corpo, e di altri colori. Cioè so di averlo un corpo ma con tutto questo bianco non vedo nulla. Topo …”
“Si?”
“E’ per seguire te che non ho guardato gli scaffali …”
Esitai, sentivo il topo che attendeva educatamente.
“E se avessi perso qualcosa?”
“Che genere di cosa?”
“Non so, un’offerta, un’occasione.”
“Attenta stai ragionando come loro.”
“Si ma … E’ tanto terribile essere pieni? Insomma, nasciamo vuoti, giusto? E poi moriamo pieni. Funziona così?”
“Generalmente.”
“ Non mi sembra sbagliato. Mi sembra … naturale.”
“Naturale è come dire bestiale.”
“Bestiale?”
“Si bestiale, animale, fatale. Naturale. La natura è una schiavitù che crediamo di avere.”
“mmm”
“ Quando qualcosa ti sembra naturale, è perché segue la normale evoluzione di quel genere di cose. E’ come un finale che si ha già in corpo, una strada nota che si sa già dove va a finire. Naturale non significa altro che buttare le proprie redini, abdicare alla massa, al tempo e al caso.”
“ Allora deve essere qualcosa di sbagliato.”
“Oh no. Ciò che è naturale è sempre giusto. Ma se tu sei sbagliato, l’errore è il tuo giusto perché l’errore ti è innato ed è ciò che è giusto ad essere inadeguato.”
“ Topo… Sono confusa.”
“Bene.”
Mi fermai ancora a pensare.
“Topo, qui posso pensare per tutta la vita senza concludere nessun pensiero?”
“Se lo desideri.”
“Sai cosa vorrei, topo? Vorrei che niente cambiasse e tutto fosse diverso. Questo mi piacerebbe. Mi piacerebbe che tutto mutasse in continuazione ma che non fosse mai sconosciuto per me. Vorrei che i miei pensieri sanguinassero. Vorrei che tutto quello che c’è nella mia testa lo si potesse cacciare vivo di là e vorrei poterlo cambiare o distruggere senza rimorsi. E vorrei che il mio corpo fosse vuoto come un fantoccio e potessi aprirlo con una cerniera e mettermici dentro tutte le cose belle che amo e portarmele dietro per tirarle fuori quando lo desidero. Vorrei che le persone che incontro si prendessero qualcosa da me e mi lasciassero qualcosa. Una specie di baratto esistenziale. Vorrei che nessun incontro fosse dato per scontato, che nessuna natura umana venisse trascurata. Vorrei che l’incredibilità dell’uomo venisse riconosciuta sempre e comunque anche nel più triste, stupido, noioso degli esseri. A me l’uomo fa così pena per il solo fatto che è uomo che non riesco a condannarlo per nient’altro.  Allora non ci potrebbero essere punizioni. Ma nessuno riuscirebbe ad uccidere perché si ucciderebbe qualcosa di troppo complesso, vario, disarmato.”
Il topo restava in un silenzio triste.
“Non posso restare, topo.”
Il topo abbassò gli occhi.
“Devo tornare là sotto.”
Il topo non rialzò la testa. Scesi lentamente sperando che mi dicesse qualcosa, anche che avessi torto e di tornare indietro. Ma non diceva nulla, avvertivo solo il suo silenzio doloroso. Mentre scendevo guardavo intorno abbracciando tutto con lo sguardo e seppi che ogni singola cosa era mia, mi apparteneva. E io appartenevo loro. Doveva essere così.  Quando non vidi più neppure la punta del lungo naso del topo, seppi di essere arrivata con i piedi per terra.



mercoledì 2 settembre 2015

Genesi di un timido esibizionista

2011 - Scambio epistolare con una scrittrice

Io nella scrittura non sono forte. Non mi sento sicura. Per questo non riesco a condividere i miei pensieri. Me la chiudo gelosamente dentro come una malattia di quelle che fanno compassione e non è per orgoglio credimi, è per debolezza. E' che la scrittura è qualcosa di troppo interno, mi pare quasi indecoroso andare in giro a mostrarla agli altri. In ogni caso non sono una persona aperta, se no credo non scriverei, non mi parrebbe essenziale. Qui forse sta la differenza nel nostro rapporto con la scrittura. La tua mi sembra sentita, sofferente, vibrante come un’umanità disperata che sta combattendo per qualcosa di vitale e tu mi sembri un leader pietoso che soffre con ognuno dei suoi seguaci ma continua a mandarli avanti. C’è questa forza trascinante nelle tue frasi che mi ipnotizza. La mia truppa invece, i miei soldati, non hanno fiducia nel leader. Anzi lui ha abdicato, li abbandona. Anzi si mischia alla folla e se vedesse un altro con la stoffa del leader gli darebbe il potere senza colpo di stato. E’ un vigliacco. Però una qualità ce l’ha, è buono, profondamente, totalmente buono. Il leader pietoso è giusto. Ma la giustizia per perseguire i suoi alti fini non può non sacrificare qualcuno, foss’anche il più schifoso, inutile, malvagio degli esseri. Ecco, il leader fuggitivo non ce la fa, non ce la fa neppure a volere il male dei suoi nemici, non riesce a volere morto chi lo ucciderebbe senza esitare. Perché prova troppa pena per l’uomo per il solo fatto che è uomo, e già questo dovrebbe bastare a esentarlo da qualsiasi altra disgrazia. E in più vede sé stesso in ogni uomo che gli è davanti e non riesce a contraddirlo, a smentirlo o a procurargli dolore neppure a fin di bene, neppure se riconosce che è necessario, preferisce lasciar fare ad altri. Però vedendo sé stesso in ognuno, si nega il piacere e il rischio di vedere gli altri e si illude di essere magnanimo e democratico, di riconoscere e rispettare tutte le altre nature e opinioni. Ma sotto sotto le sfugge e le nega. E così si nega anche il piacere di condividere le proprie riflessioni perché pensa che gli altri, in fondo, non possano non conoscerle. E' un vigliacco egocentrico.


2012 - Testo per l'ammissione a un workshop



Sono le due del mattino della fine di Marzo, Salerno è calda e ha un buon odore. Io torno a scrivere dopo molto silenzio. Mi hanno detto che ho le occhiaie più profonde e io mi sento più pesante e più leggera senza la mia scrittura.
Avevo quattro anni quando ho iniziato, poi ne avevo dodici e sedici e ventiquattro e ancora scrivo. Ti ho sempre detto che volevo diventare uno scrittore, ora ho capito che in buona parte sono diventata scrittura. Molta bellezza, domande, amori, dubbi della mia vita hanno avuto pelle e anima solo di carta e di penna. Non importa che non si siano mai staccati, che non siano andati per il mondo in carne e sangue. Se era questo l’unico modo di averli, allora va bene.
Ti ho detto che gli scrittori sono dei timidi smaliziati, dei vigliacchi esibizionisti, che vanno gridando eccomi al mondo e poi finiscono sempre per vedersela col proprio senso del pudore. Ti dirò di più, gli scrittori sono degli handicappati, sono nati senza un organo fondamentale, senza la capacità di adeguarsi al mondo o di adeguarlo a sé e hanno bisogno di questa protesi che è la scrittura per farci passare tutto attraverso e per quella via farlo entrare dentro di loro.
Mi chiedi se mi manca una maggiore naturalezza, un contatto, un rapporto filiale con la realtà. Mi è mancato, ho provato a catturare le altre persone, a fissarle così come le vedevo e le sentivo in un momento eterno, mio, sempre lì per me, dove nessuno me le avrebbe potute strappare, nessuno, nemmeno loro stesse avrebbero potuto strapparsi. L’hanno fatto. Hanno lasciato anche quelle pagine e sono andate via. Le ho cercate, lette e rilette, ma non c’erano più. E ho capito che dovevo restare da sola. Che la scrittura era un modo per restare sola con me stessa.
Mi hai detto tante volte che la scrittura è condivisione, di metterla al mondo. Ora eccomi, sono pronta. Ma non sarò io a metterla al mondo, è lei che metterà al mondo me. E’ così, penso che sia così, accadrà che uscirò io da lei e soffrirò e poi, chissà, aprirò gli occhi. Non li apriamo tutti gli occhi?
Non preoccuparti per la mia mente o per il mio cuore, sono di sangue e umori, vivono da anni e secoli, sono nati con la natura e moriranno con naturalezza, preoccupati per me, per qualsiasi cosa sono io dentro questo corpo che è sempre lo stesso. Preoccupati per me, augurami di trovarmi dentro quella massa di cellule, augura anzi di conservarmi, perché tutti dicono trova te stesso ed io ho deciso, semplicemente, di aspettarmi.


2013 - Da una email


Non so se ho scelto di scrivere e se l'ho fatto non saprei dire come. E' che scrivere è qualcosa che non saprei come sostituire. Forse è questa la definizione di necessario. Io scrivo per necessità, è l'unico modo che ho per arrivare a un luogo scuro, un grumo di sconosciuto, che è in me e che non saprei ritrovare per nessun'altra strada.

Non so se riuscirò mai a scrivere un romanzo lungo o altri racconti brevi. Forse non m'importa neanche saperlo. Io voglio sapere di poter essere più profonda di così. Che tutto possa essere più. Io voglio vederci quell’umanità strana e persa in una multinazionale di mobili svedesi e voglio scoprire quanto possa essere bello essere letti da una persona capace di emozionarsi anche senza caffè. La letteratura è una vita e un più.


2014 - Da una conversazione con il mio mentore e critico letterario


Non sono una scrittrice. Non manipolo le parole, non le so limare, non so vederle oggettivamente, in maniera distaccata, come fossero materiale grezzo. Le parole per me sono state sempre dense di significati che mi sfuggivano. Per questo le inseguo, per questo le ho inseguite, perché mi sfuggono. E credo in loro, profondamente, perdutamente, anche se mi tradiscono sempre.


2015 - Per l'introduzione a un blog. Il mio. 


E' un riflesso condizionato nei confronti della vita. Woody Allen diceva: Leggo per legittima difesa. Io dico senza ombra di dubbio: Scrivo per legittima difesa. 
Legittima difesa da me, da voi, dagli altri, dalla vita, dal prendersi troppo sul serio, dal non prendere nulla sul serio, dal tempo che passa, dalla memoria che scolora, dalla perdita, dall'accumulo, dalle nuove me che premono per sostituirsi alle vecchie, dalle vecchie deboli e morenti che vogliono ancora raccontare prima di dimenticare e dimenticarsi, dal dolore di non essere quello che avrei voluto o potuto, dalla gioia di non essere quello che temevo di poter diventare, dalla inspiegabile pressione dell'arte, della creazione, dall'idea a volte di stare vivendo per qualcos'altro, di stare vivendo per raccontarmelo e poi tornare a rileggerlo con calma, una volta uscita da questa vita, e finalmente capire qualcosa di tutto quello che è stato. 
Scrivo perché tutto questo non so gridarlo agli altri miei esseri umani. Altrimenti starei gridando, starei gridando da tempo senza mai smettere. La scrittura è il mio grido infinito.

lunedì 1 giugno 2015

Sotto gli archi del processo - L'ultimo atto del processo Thyssenkrupp


La scena è scura, l’attore inizia a parlare sul buio, è in un angolo del palco. Lentamente si accendono luci soffuse, illuminano una scenografia che riprende le forme dell’aula della Cassazione: Un tavolo molto lungo a ferro di cavallo, la scritta sul muro in fondo in caratteri di bronzo “la legge è uguale per tutti” cui mancano delle lettere, in alto appesi con delle mollette a un filo per stendere i panni gli ingrandimenti delle foto dei volti dei 7 operai morti.

Ultimo atto del processo Thyssenkrupp. Udienza di Cassazione.
Durante l’esposizione del Consigliere relatore, in aula sono presenti gli Avvocati e Professori, il Presidente e le Eccellenze della Corte, il procuratore generale, l’onda di fuoco alta 12 metri detta Flash fire, i corpi carbonizzati di sette operai.
Sgocciola sinistramente l’olio termico dalla relazione del Consigliere, sgocciola sulla scrivania a ferro di cavallo dell’aula magna della Corte di cassazione. Se scoppiasse una scintilla, una lingua di fuoco avvolgerebbe il tavolo e i faldoni del processo, coprendo i giudici e il cancelliere alla vista del pubblico.
(A questo punto le luci si fanno più calde, dal giallo al rosso, e tremolanti a simulare il fuoco)
Allarmati, gli avvocati, otto in tutto, seduti uno di fianco all’altro, dietro un lungo tavolo rettangolare, correrebbero a mettere mano agli estintori.
Estintori.
(Le luci tornano soffuse e immobili)
E se non ci fossero gli estintori?
Come farebbero a spegnere gli eccellentissimi giudici della corte?
Quelle lunghe toghe nere paiono piuttosto infiammabili, come pure le sedie di legno foderate di uno scolorito cuoio rosso, come pure il grande tavolo a U che occupa il fondo dell’aula.
Si consumerebbero i capelli bianchi dei consiglieri, polverizzandosi sul cranio come farina.
Brucerebbe la cornice di legno che troneggia sul muro dietro al presidente, cadrebbero in terra una a una le lettere di ottone contenute in essa: L A L E G G E E’ U G U A L E P E R T U T T I.
(Le lettere in scena cadono in terra una ad una)

Ma tutto questo non accade.

(si accendono tutte le luci sul palco la scena diventa chiara, il tavolo con le toghe posate sulle sedie su cui dovrebbero esserci il presidente al centro, il procuratore a sinistra e il consigliere relatore a destra, le lettere cadute a terra)
L’aula è una solita aula di cassazione, prima che il Consigliere relatore inizi a parlare.
Il Procuratore Generale siede solitario al margine del tavolo a ferro di cavallo, con lo sguardo di grosso cane triste fisso nel vuoto e i baffoni spioventi. Non muterà mai, a nessun insulto degli Avvocati.
I Signori Avvocati e Professori si pavoneggiano disordinati come volatili, girati gli uni verso gli altri, troppo grassi per spiccare il volo, contenti di raccattare grano per terra, contenti della loro stazza che li tiene ben saldi al suolo. Li osservano i loro pulcini, seduti ansiosi in prima fila, i  giovani collaboratori, pronti a scattare a una richiesta, pronti a diventare come loro, con gli occhi avidi come volpi.
Entra la Corte, tutti in piedi. Gli avvocati si disciplinano, mettono su sguardi ipocriti da studenti del primo banco.
Il Presidente saluta, si scambiano frasi di circostanza, compiti, educati. Cerca con lo sguardo IL Professore in mezzo a tutti gli altri. Lo trova. Gli fa un cenno. Deliziami, gli dice il suo sguardo. Mi annoio, il mondo è basso e un po’ misero per uno arrivato a questi vertici, per uno arrivato alla mia età. Deliziami. Fammi riprovare quella scintilla.
Il Professore risponde allo sguardo e il Presidente è contento, perché il Professore ha gli occhi di fuoco.

La Giustizia ha sguardi miopi, nasi grossi e labbra leporine. La Giustizia ha zeta marcate come quelle di sua Eccellenza il Presidente ed erre mosce come quelle del Consigliere relatore.
L’aula, che è solo un’aula quando il Consigliere relatore inizia a parlare, poco a poco gela come lo stanzone umido e un po’ squallido di una fabbrica di Torino.
(Di nuovo si fa buio, si sente uno sgocciolio in scena)
Il Consigliere racconta con parole di acciaio.
Va avanti per quasi due ore, nel corso delle quali è come se si consumasse. E’ come se i sette anni di processo cadessero su di lui e si depositassero. Alla fine non è più freddo,non è più asettico, la voce si incrina, si affievolisce, la fronte suda copiosamente, deve fermarsi e bere periodicamente, sembra se stesso invecchiato di decenni.
Parla del processo di lavorazione dei rulli di acciaio nella linea di ricottura e decapaggio APL5, spiega il funzionamento di quelle grosse macchine piombate in aula, racconta la disposizione degli operai, spiega cosa siano i “pulpiti”, i luoghi in cui stavano per controllare alcuni passaggi.
 Dietro ogni passaggio, dietro ogni fase della lavorazione si annida la tragedia. Dove sarà? Come sarà? Quando accadrà? Chi può prevederlo?
(L’attore inizia a mimare i gesti di un operaio in una catena di montaggio sempre gli stessi ripetuti circolarmente)
Chi può sapere quando un gesto che ti viene tanto naturale, tanto automatico, a un certo punto, un certo giorno non lo compirai, ti dimenticherai di farlo? Chi può sapere quando uno di quei piccoli incendi che scoppiavano giornalmente e venivano presto spenti diventerà un’onda di fuoco alta 12 metri che ti inghiottirà?
(L’attore si ferma, guarda su come stesse osservando qualcosa di molto alto)
“Un‘orribile mano dalle dita di fuoco che non lasciavano scampo”, la descriverà di lì a poco un avvocato in vena di immagini poetiche.
(Pausa. L’attore piano torna a guardare il pubblico.)
Chi può prevederlo? Già. Il problema sta tutto lì.
Noi sappiamo che succederà, noi aspettiamo il fuoco dietro ogni parola del Consigliere relatore. Prima o poi scoppierà, bisogna solo capire quando.
E loro? Lo aspettavano loro? I sette operai armati di estintori che si avvicinano all’ennesimo incendio per spegnerlo.
Come l’ha definita il Consigliere relatore? Una nuvola d’olio. Una nube d’olio idraulico si sprigiona dai tubi, come spray gettato sul fuoco, lo gonfia. Dodici metri, misura quasi quanto sette uomini stesi uno dietro l’altro.
Le parole fredde asettiche del Consigliere e d’improvviso il fuoco.
Esplodono nell’aula quei sette uomini che cercano di domare le fiamme.
(Rumori di fiamme, grida e richiami soffusi in sottofondo, l’attore mima a gesti lenti una lotta contro il fuoco. Poi si ferma.)
La cosa successe così: un tubo di alluminio, inserito nel solito nastro scorrevole, sulla APL5, sbanda, non è fissato bene. Qualcuno si è dimenticato di premere il pulsante per centrarlo oppure il meccanismo non ha funzionato. Urta contro le pareti, produce scintille. Un rotolo di carta oleata, che non doveva essere lì, prende fuoco, si stacca un pezzo incendiato e precipita al piano di sotto. Al piano di sotto, pozze di olio stagnante sgocciolato dai tubi che cadono a pezzi, si incendiano al contatto con la carta infuocata. Era da un po’ che si erano fatti tagli sulla pulizia dei locali. Gli operai nei pulpiti non se ne accorgono. Quando qualcuno se ne accorge c’è già un rispettabile incendio, gli operai accorrono, tutti quelli che possono aiutare aiutano. E’ un altro dei tanti incendi che spengono giornalmente. La pompa dell’acqua non funziona, non ha abbastanza pressione, lo si sapeva ma si è provato lo stesso. Le lampadine di emergenza sono bruciate o mancano. I telefoni di emergenza sono muti, inservibili. Questo piccolo incendio pare restio anche agli estintori, uno non si è proprio aperto, lo hanno sostituito subito. (Recitato velocemente e con ritmo)  
E poi: flash fire, signore e signori. (Flash di luci, l’attore alza le mani, forzatamente allegro come un presentatore di varietà, musichetta gaia di sottofondo)
Lo chiamano così questo muro di fuoco dell’altezza di quattro piani di palazzo. Flash fire, un fenomeno che avevano ben studiato, anche i signori della Thyssen. Due convegni avevano dedicato alla sicurezza, vi aveva fatto capolino in entrambi. “Il calore del fuoco può provocare la rottura di alcuni dei flessibili contenenti olio idraulico ad altissima pressione, determinando l’immediato diffondersi di una nube incendiaria”.
(Termina la musica. L’attore si fa serio.)
Flash fire e non c’è niente da fare per sette di quegli uomini. Dove puoi scappare da uno scoppio di fuoco di dodici metri?
Flash fire. Come se il termine tecnico fosse meno agghiacciante.
Non sono morti dilaniati da ustioni che gli hanno mangiato vivo il corpo in una lunga agonia fino alla morte. No, sono stati vittime di un Flash fire. Suona spettacolare, il nome di un effetto speciale del cinema.

(Si spengono tutte le luci. Si riaccendono e l’attore è steso sotto una coperta, sdraiato sul tavolo dei giudici, solleva la testa, guarda il pubblico)

Vi ricordate cosa stavate facendo la notte tra il 5 e il 6 dicembre del 2007? Io non ricordo dove fossi, probabilmente dormivo tranquilla nel mio letto.
Alle ore 1 e 43 del mattino, invece, al 118 di Torino giungeva questa telefonata.
(Si ristende, le braccia dietro la testa, guarda in alto in attesa, dall’alto giungono le voci di due attori che recitano la registrazione della telefonata)
* VOCE FEMMINILE (REGISTRATA) - 118 Emergenza.
VOCE MASCHILE - 118?
VOCE MASCHILE - Pronto, buongiorno senta...
VOCE MASCHILE - Le passo l'ambulanza, un attimo.
VOCE MASCHILE - sì, si.
VOCE FEMMINILE REGISTRATA - Attendere prego. Centrale operativa, attendere
prego. Centrale operativa, attendere prego. Centrale operativa, attendere...
VOCE MASCHILE - Neanche il 118 risponde, porca puttana.
VOCE FEMMINILE REGISTRATA - Centrale operativa, attendere prego. Centrale
operativa, attendere prego.
VOCE MASCHILE - Oh, mai i Vigili non mi rispondono.
Rumori in sottofondo.
VOCE FEMMINILE - 133.
VOCE MASCHILE - Pronto, senta...
VOCE FEMMINILE - Mi dica.
VOCE MASCHILE - Sono della Thyssenkrupp in Corso Regina, senta è successo un
incidente, ci sono tre o quattro ragazzi bruciati.
VOCE FEMMINILE - Senta, in Corso Regina, dove?
VOCE MASCHILE - La 400, di fronte alla... La Thyssenkrupp.
VOCE FEMMINILE - La? Che ditta è la vostra?
VOCE MASCHILE - La Thyssenkrupp in Corso Regina 400.
VOCE FEMMINILE - Thyssenkrupp?
VOCE MASCHILE - Il 118 ho chiamato.
VOCE FEMMINILE - Cosa succede? Io ho già provveduto all'invio dell'ambulanza,
cosa succede?
VOCE MASCHILE - Eh, ma mi sa ne servono due o tre, perche ce ne sono tre che sono
bruciati.
VOCE FEMMINILE - Quattro bruciati o carbonizzati?
VOCE MASCHILE - Non sono carbonizzati, però abbiamo cercato di spegnerli, senza
vestiti, senza niente sono.
VOCE FEMMINILE - Senta, faccia trovare qualcuno all'ingresso, io provvederò
all'invio di più mezzi.
VOCE MASCHILE - Ci so... Allora ci sono le guardie all'ingresso...
VOCE FEMMINILE - Sì.
VOCE MASCHILE - Arrivano, c'è la portineria, li accompagnano... Li accompagnano
loro.
VOCE FEMMINILE - Senta, è esploso qualcosa?
VOCE MASCHILE - Ma... Ha preso fuoco un impianto qua, c'è della carta, dell'olio, di
tutto.
VOCE FEMMINILE - Devo mandare anche il 115 allora.
VOCE MASCHILE - Sì, I'ho provato a chiamare ma mi hanno detto che erano
impegnati per delle emergenze, ma la cosa è gravissima qua.
VOCE FEMMINILE - No, no, no, mandiamo anche il 115, eh. Va bene.
TERZA VOCE MASCHILE (IN LONTANANZA) - L'avete chiamata I'ambulanza?
VOCE MASCHILE - L'ho chiamata io. ora...
VOCE FEMMINILE - Sta arrivando l'ambulanza.
Si sentono dei rumori in sottofondo.
VOCE FEMMINILE -Si sentono delle urla in lontananza.
VOCE MASCHILE - Vieni qua, vieni qua, vieni qua.
VOCE FEMMINILE - pronto.
VOCE MASCHILE - l'acqua, l'acqua. Oh, prendete l'acqua. Lo bagnamo.
QUARTA VOCE MASCHILE (IN LONTANANZA) - Non voglio morire.
VOCE MASCHILE - No, no, Beppe, no.
QUARTA VOCE MASCHILE (IN LONTANANZA) - Non voglio morire.
VOCE FEMMINILE - Io direi anche tre...
VOCE MASCHILE - Sì, guardi ce ne sono almeno quattro.
VOCE FEMMINILE - Quattro?
VOCE MASCHILE - Ora due ce li ho qua. Teneteli lì, teneteli.
Si sentono delle voci in lontananza.
VOCE FEMMINILE - Ma ci sono anche altre vittime? Ci sono altre persone?
Si sentono dei rumori in sottofondo.
VOCE MASCHILE - Pronto.
VOCE FEMMINILE – Mi dica, se per caso ci sono altre persone?
VOCE MASCHILE - Ma guardi... Io ora sto... Sto finendo il cellulare, si sta scaricando.
Senta, qua abbiamo bisogno...
VOCE FEMMINILE - Sì, io ho già provveduto. Mi ascolti bene, ho già provveduto, io ho
bisogno di sapere, siccome stiamo provvedendo a mandarvi tutti i mezzi che abbiamo...
VOCE MASCHILE - sì.
VOCE FEMMINILE - Eh... Se avete il sospetto ci siano altre persone oltre a quelle
quattro?
VOCE MASCHILE - eh... È probabile però...
VOCE FEMMINILE - è probabile?
VOCE MASCHILE - Si.
Si sentono delle voci in lontananza.
VOCE FEMMINILE - Senta, se c'è qualcosa che sta bruciando c'è il rischio di
un' esplosione, allontanatevi.
VOCE MASCHILE - Andiamo in infermeria, andiamo in infermeria.
Si sentono delle voci in lontananza.
TERZA VOCE MASCHILE - Avete chiamato il 118?
VOCE MASCHILE - Già li ho chiamati io, sono tutti... verranno qua. Pronto?
VOCE FEMMINILE - sì, mi dica.
VOCE MASCHILE - Niente, ora ho parlato con... Mamma mia, ho parlato con la
guardia, ha detto che anche loro hanno chiamato i Vigili e che stanno arrivando.
VOCE FEMMINILE - Sì, li abbiamo già contattati anche noi.
Si sentono delle voci in lontananza.
VOCE MASCHILE - C'è qualcuno che li apre in portineria al 118, si?
TERZA VOCE MASCHILE - Sì, ho lasciato tutto aperto.
VOCE MASCHILE - Ma come cazzo è successo di colpo così? Tutti lì erano porca
puttana.
Si sentono delle urla
VOCE MASCHILE - Oh, ma facciamoli andare in infermeria questi qui però, cazzo son
qua. Li avete visti dove sono? Almeno in infermeria, no?
Si sentono delle voci in lontananza.
VOCE MASCHILE - Guarda lì come sono, prendiamo una giacca, una cosa.
Si sentono delle urla e delle voci in lontananza.
VOCE MASCHILE - Sta arrivando, sta arrivando, sta arrivando. State a terra, tanto
non risolviamo.
Si sentono delle urla.
VOCE FEMMINILE - Quante persone a terra immobili ci sono?
VOCE MASCHILE - Qua ce ne sono quattro sicure, ma chi era a terra lì chi
c'è? Tu a tema, nel gabbiotto. Ce ne ho quattro qua eh, non so se ce n'è qualcun altro,
quattro sicuri.
VOCE FEMMINILE - Ok, c'è qualcuno che ha delle bruciature evidenti?
VOCE MASCHILE - Sì, non hanno più vestiti guarda, è su tutto il corpo.
VOCE FEMMINILE - Ok. La sostanza... le sostanze che bruciano che cosa sono? Oli?
VOCE MASCHILE - Qua per terra, olio, carta, di tutto, oro non le so dire cosa c'era,
diciamo...
VOCE FEMMINILE - Ma perché devo ancora informare il 115 se sono sostanze
particolari.
VOCE MASCHILE - Sta arrivando l'ambulanza, allora aspettate che sta arrivando
l'ambulanza. Sta arrivando. Sta arrivando già qua l'ambulanza. Sta arrivando, sta
arrivando, è qua.
Rumori in sottofondo.
VOCE MASCHILE - Stanno arrivando, eh. Ma in portineria, non c'è nessuno in
infermeria?
Si sentono delle voci in lontananza.
VOCE FEMMINILE - Senta. sta arrivando I'ambulanza. io la lascio. va bene?
VOCE MASCHILE - Sì, va bene. La ringrazio.
VOCE FEMMINILE - Grazie.
VOCE MASCHILE - Ciao.
(Poco a poco la luce si scurisce, fino a lasciare il palco nella semioscurità)

(Si riaccendono le luci, l’attore è in piedi, appoggiato al tavolo degli avvocati, indossa la toga)
Uno di quegli avvocati dalla voce melliflua e il tono suadente, un’onda di capelli argentati, la barba curata, gli occhi azzurri penetranti,durante la sua arringa dice (l’attore cambia voce ogni volta che recita la parte dell’avvocato):
“La presenza di estintori a lunga gittata, eccellenze della corte, sarebbe stata addirittura criminogena. CRIMINOGENA, signori miei.”
Gli estintori a lunga gittata possono essere usati da dieci metri di distanza. Gli operai avrebbero potuto essere investiti da una coda di due metri di fuoco, invece che da una cascata di dodici metri.
La presenza degli estintori a lunga gittata sarebbe stata criminogena. Così ha detto, Signor Avvocato? Ci spieghi, la prego. Ci dica.
“Perché la loro presenza lì, avrebbe spinto gli operai a credere di dover essere essi stessi a spegnere le fiamme e, invece di permettere loro di scappare, per andare a chiamare i vigili del fuoco, li avrebbe spinti verso il pericolo incoraggiandoli a tentare di domare l’incendio”.
Mi faccia capire, Signor avvocato, mi lasci capire cos’è che sta dicendo:
La presenza degli estintori a lunga gittata (c’erano, invece, quelli comuni) avrebbe portato gli operai ad affrontare il rischio e la morte.
Ma, Signor avvocato, gli operai sono morti e hanno affrontato il rischio. Pur in assenza dei suoi pericolosissimi estintori a lunga gittata.
Spegnevano incendi ogni giorno, molte volte al giorno. Nessuno si sognava di chiamare i vigili del fuoco ogni giorno, molte volte al giorno, per piccoli fuochi.
Signor avvocato, non crede che la presenza di estintori a lunga gittata li avrebbe invece fatti stare un po’ più lontano e quindi un po’ più al sicuro? Poi, chissà, sarebbero morti lo stesso. O forse no. O forse qualcuno si sarebbe potuto salvare.
E, col suo ragionamento, qualsiasi strumento di tutela dei lavoratori da incidenti di vario genere sarebbe “criminogeno” perché li spingerebbe ad agire per difendersi, invece di fuggire? Ma togliamole tutte queste pericolosissime tentazioni! Non mettiamo neanche i caschi, non sia mai che spingano gli operai a fare evoluzioni circensi sulle impalcature. Togliamo le imbracature, le tute protettive e ignifughe, se no questi ci si buttano direttamente giù dalle impalcature o dentro al fuoco. E le infermerie? E i kit di pronto soccorso? Ma vogliamo davvero che questi operai si improvvisino dottori, giocando al piccolo chirurgo invece di correre a chiamare chi ne sa più di loro? Cri-mi-na-li che non siete altro!
Ho capito bene, Signor avvocato?
(Pausa. Mentre si sente da fuori scena la voce del Testimone 1, l’attore si sfila lentamente la toga e la lascia cadere a terra, poi si stende lui stesso a terra e resta immobile, uno ad uno entrano sei attori silenziosi che si stendono in terra in ordine sparso sul pavimento, alcuni di loro strisciano sul ventre o sulla schiena, lentissimamente, fino a restare tutti immobili)


* TESTIMONE 1 - “Come ho passato il passaggio che divide la linea 5 dalla linea 4 ho visto un muro di fuoco, ecco. Fiamme altissime che arrivavano al carro ponte, bruciava anche il muro in mattoni. Subito ho detto ai miei colleghi di prendere manichette ed estintori perché non... Pensavo fossero coinvolti solo gli impianti, non mi ero reso conto ancora di... Invece appena sono arrivato nelle vicinanze, proprio vicino al fuoco, ho visto Angelo Laurino e Roberto Scola che erano a terra, tutti e due erano... Laurino era rivolto con la schiena a terra, Roberto Scola invece era a faccia a terra, erano completamente nudi, avevano le scarpe che bruciavano e qualche pezzo di vestito. Non avendo niente, mi sono tolto il maglione e ho spento quello che era rimasto, Boccuzzi urlava che c'erano gli altri dentro e si sentivano le urla; allora gli ho chiesto se aveva chiamato aiuto perché ho visto che noi non potevamo fare più niente, lui mi ha detto che il telefono non funzionava, allora ho preso il mio cellulare, ho chiamato il 118, la telefonata che avete sentito. Solo che li, come si sente, c'era il calore che era insopportabile, non potevamo stare li, si sentivano esplosioni, il fumo, allora i miei colleghi hanno spostato Scola e Laurino vicino... Lontano dalle fiamme ed io mi sono allontanato tornando verso la linea 4 per poter parlare al 118 perché c'era troppa confusione. Come ho passato il passaggio di nuovo al contrario, mi sono ritrovato davanti gli altri miei colleghi in piedi, tutti nudi, c'era Giuseppe De Masi che io ho riconosciuto solo perché ha parlato, era impossibile riconoscerli fisicamente, li ho riconosciuti solo dalla voce e mi ha chiesto se era bruciato in faccia, lui si preoccupava se era bruciato in faccia, ma era tutto bruciato. Ho cercato di tranquillizzarlo dicendo di stare tranquillo che avevo chiamato i soccorsi. Rosario urlava "non voglio morire, non voglio morire". L'ho riconosciuto quando ha detto che non riusciva a respirare e l’ho aiutato a salire su un'ambulanza, sennò non avevo riconosciuto neanche a lui”.

(L’attore inizia a parlare mentre gli altri attori si rialzano ed escono di scena)

Si alzano uno dopo l’altro gli avvocati, come marionette a scatto di un meccanismo ben oleato. Fanno le loro difese senza passione, scaricano gli uni le colpe sui clienti degli altri, con gesti naturali e quasi speculari, senza irritazione. Il clima è quello di uno strisciante autocompiacimento generale. Come se avessero già vinto altrove e fossero là solo per celebrare una qualche cerimonia a favore del pubblico.
“Il mio cliente, eccellenze della corte, era “l’ultima ruota del carro”, un povero operaio con la licenza media, che avevano promosso alla vigilanza sulla sicurezza, così per rispetto, per stima, senza sapere di stargli depositando una croce troppo pesante sulla schiena. Lui non sapeva niente, non capiva niente, non aveva alcun potere decisionale o di gestione dei fondi. Poche ore, aveva fatto, di un corso sulla sicurezza sul lavoro, poche inutili ore, solo una formalità”.
“Il mio cliente, eccellenze della corte, era sì, un dirigente con poteri decisionali e con a disposizione una misera cifra da gestire, ma era nella sede di Terni. Cosa poteva fare lui, così lontano? Come poteva sapere? Lo tenevano all’oscuro di tutto. Quando andava in visita lì, tutto era lindo, tutto tirato a lucido, nemmeno una cicca trovava sotto le sue scarpe”.
“Il mio cliente non sapeva, signori giudici …” “il mio cliente non poteva, Eccellenze…”
Durante i sette anni di processo, è uscito fuori che la sede Thyssen di Torino era prossima alla dismissione. Da lì a un paio d’anni, sarebbe stata chiusa definitivamente. Era stato deciso di comune accordo da un comitato esecutivo, che esisteva non ufficialmente ma di fatto. Lo sapevano tutti.
I sette operai che ci sono morti, non so, forse lo sapevano pure loro. Ma che ci potevano fare?
(Di nuovo rumore di sgocciolio)
Una fabbrica in dismissione è come un corpo prossimo alla morte, viene lasciato a sé stesso e ai suoi inevitabili cambiamenti esteriori, al disfacimento, all’emissione di liquidi e di umori.
 Non è più lavato (Il contratto con l’impresa di pulizia aveva subito una diminuzione di ore di lavoro impressionante), non lo si protegge più contro le intemperie (di lì a poco si spegnerà, pacificamente, da solo, sono inutili gli affanni con cui ci si protegge da quello che ormai è noto debba accadere), non ci si impiegano più sforzi, risorse, cure. Queste sono tutte attività di stipo del futuro, di messa in sicurezza del futuro, ma di futuro quella sede ormai non ne ha più, siamo agli sgoccioli.
“Il mio cliente non sapeva, eccellenze” “… il mio cliente cosa poteva?”
Erano stati stanziati 800.000 euro per la messa in sicurezza della sede di Torino. Erano stati stanziati dall’alto, non sono mai stati usati. Ora quegli 800.000 euro giacciono freddi e inutili nelle mani della procura dello Stato.
Ma allora qualcuno sapeva, ditemi un po’ Illustrissimi signori avvocati. Ma allora qualcosa si poteva.
Perché quegli 800.000 euro di sicurezza non sono mai stati usati? Chi ne aveva la responsabilità? Chi la disponibilità? Chi li ha barattati per la vita di sette persone?
(Cambia voce, riprende quella da avvocato, strascinata e melliflua)
“Ma, Signori giudici, ma sentite cosa si dice qui? Che per risparmiare 800.000 miseri euro, si sarebbe messa a rischio non solo la vita di quegli operai ma anche la propria libertà. Siate ragionevoli, signori miei. 800.000 euro sono briciole! Manca il corrispettivo. Questa è la domanda che vi dovete sempre porre: quale corrispettivo?”
Quale corrispettivo.
Si gioca qui la difesa di molti di quegli avvocati: quale corrispettivo poteva allettare questi signori a tal punto da distoglierli dall’usare quei soldi destinati alla sicurezza della sede di Torino mettendo, di conseguenza, a rischio le vite di molti operai?
Il risparmio e il reinvestimento di quegli 800.000 euro?
Tutto qui?
Troppo poco.
Troppo poco in confronto a tutto quello che i dirigenti Thyssen stanno passando da sette anni a questa parte. Troppo poco rispetto alla gogna pubblica, allo stress, alle perdite economiche, di reputazione che sono succedute all’ “incidente”.
(Si siede disinvolto sul tavolo dei giudici, spenzola le gambe)
Ecco, vedete, il problema con i corrispettivi è questo: non si è mai ben sicuri della presenza o meno di piccole clausole al margine poste dal caso, che stravolgono le carte in tavola.
 Così piccole da essere difficilmente leggibili a occhio nudo, prima. Ma che diventano evidenti come una montagna, dopo.
800.000 euro sono troppo pochi, sì, a fronte dello scoppio di un incendio, di una strage di operai, di un processo per omicidio colposo, il rischio di una condanna e il discredito sull’azienda. Ma 800.000 euro non sono affatto pochi, sono una cifra rispettabilissima, se andasse tutto bene, se quell’incidente fatale, che potrebbe verificarsi ma potrebbe anche non succedere, non avvenisse.

(Si spengono le luci, si accendono in un angolo del palco dove due attori recitano il dialogo)

“Allora, qui si risparmia sulla sede di Torino, d’accordo? Sta per chiudere, tiriamo avanti tranquillamente per un altro paio d’anni così come abbiamo sempre fatto negli ultimi tempi. Da quel versante non ci saranno altre perdite. Non vale la pena buttarci dentro altri soldi.”
“E quegli ottocentomila?”
“ Quegli ottocentomila potranno essere più utili per interventi duraturi, in vista di più redditizi obiettivi economici aziendali. Piuttosto che bruciati sul binario morto di una sede in dismissione. Allora, Siamo d’accordo?”
“Aspetta, e se succede qualcosa? E se avviene un incidente? Scoppia un incendio che distrugge tutto come a Krefeld? Magari stavolta ci scappa pure il morto? Siamo rovinati.”
“Sono successi finora lì? No. Allora perché fai il menagramo? Le macchine  vanno ancora bene, gli operai sanno quello che fanno.”
“ Ma abbiamo mandato a Terni tutti quelli specializzati.”
“ Non importa, ma che ci vuole? Lo sanno fare, non ti preoccupare. E’ tutto automatizzato. Fanno tutto le macchine.”
“Ma hai sentito degli incendi quotidiani?”
“ Eh appunto. Che vuoi che siano, piccoli incendi, due spruzzate di estintore e si spengono subito. Pure gli operai sono tranquilli. E’ routine.”
“ Ma gli estintori ci sono?”
“Si ci sono.”
“ E funzionano?”
“ Si funzionano, tranquillo.
Siamo d’accordo allora?”
(La luce si spegne sugli attori all’angolo si riaccende sull’attore ancora seduto al centro del tavolo dei giudici)
Piccola clausola al margine: Se trascuri il fato, lui non trascurerà te. Se lasci campo libero al caso, ci si distenderà appieno, come una nube di gas.
Poi per quanto imprevista dai fiduciosi dirigenti, l’onda di fuoco del Flash fire era ben nota.
Ma era rara!
Sì, ma non così remota.
 Una fabbrica Thyssen era stata rasa al suolo da un fenomeno analogo solo un anno prima a Krefeld. Nessun morto, quella volta. Un avvertimento del fato?
Gli avvertimenti stanno tutti in come li si prende. Se come un monito a preoccuparsi e difendersi, o come un invito a stare tranquilli perché se pure succedono le disgrazie, alle volte i danni sono limitati e le conseguenze non così disastrose.
Le previsioni signori miei, sono soggettive. I rischi pure sono inevitabilmente soggettivi, perfino quando ti sbattono sotto il naso risultati scientifici oggettivi che ti dicono che quel fenomeno ha alta probabilità di verificarsi a determinate condizioni.
Il rischio alla fin fine è qualcosa dell’animo umano. Una scommessa dell’uomo con il Caso.
Il prezzo? Sette vite umane, la tua esistenza ostaggio di un processo, ingenti perdite economiche. Ma resta ignoto fino a che il Vincitore non lo viene a ritirare.
(Si spengono le luci sull’attore che esce di scena, si accendono su due attori seduti su due sedie l’uno di fronte all’altro)
* DOMANDA - Quindi, siete intervenuti e lei ci ha detto che ha visto l'incendio e
sembrava che il muro bruciasse.
RISPOSTA - Si, c'era un muretto...
DOMANDA - Ci può spiegare meglio cosa intende "sembrava che bruciasse il muro",
cioè come si presentava questo muro?
RISPOSTA - Non è che sembrava... Bruciare il muro, non so se era per l'ondata di olio,
non so per cosa, però il muro in mattoni era a fuoco, praticamente noi non avevamo...
Non c'era un centimetro dove... Noi avevamo un muro di fuoco d’avanti.
DOMANDA - Quindi, I'incendio partiva dal macchinario...
RISPOSTA - Dal macchinario...
DOMANDA - Interessava il passaggio, diciamo pedonale, il corridoio e arrivava fino al
muro.
RISPOSTA - Fino al muro, sì.
DOMANDA - Quindi sbarrava il passaggio, è corretto?
RISPOSTA - Sì.
DOMANDA - È questo che intendeva dire?
RISPOSTA - Sì.
DOMANDA - Le persone... Le prime persone che avete visto, ci può ripetere chi erano
le prime due persone che avete visto?
RISPOSTA - Angelo Laurina e Roberto Scola, ma io questo lo dico perché in quel
momento non li avevo riconosciuti che erano loro.
DOMANDA - Lei ha capito chi erano dalla voce?
RISPOSTA - No, I'ho capito dopo.
DOMANDA - Come ha fatto a capire chi erano?
RISPOSTA - L'ho capito dopo perche gli altri che erano lì, poi che hanno parlato,
riconosciuto, mancavano loro due più Schiavone che era rimasto dentro, però a vederli
così, nonostante li conoscevo da anni, era impossibile riconoscerli.
DOMANDA - Da dove sono uscite queste due persone, quando lei li ha visti?
RISPOSTA - Questi due erano già a terra quando sono arrivato io.
DOMANDA - Oltre questo muro di fuoco?
RISPOSTA - Sì.
DOMANDA – Erano fuori dal muro...
RISPOSTA - Erano tre metri dal muro di fuoco, sono riusciti probabilmente ad uscire
con le loro forze, però poi non ce l'hanno fatta più.
DOMANDA - Lei li ha visti stesi a terra?
RISPOSTA - Sì.
DOMANDA - Parlavano ancora in quel momento?
RISPOSTA - No, rantolavano... Almeno quando sono arrivato io, rantolavano qualcosa
ma non parlavano, Roberto Scola perdeva qualche liquido dalla bocca che non so
cos'era, però io pensavo che non ce la facessero neanche ad arrivare in ospedale.
(Torna l’attore in scena, si sente un rumore di brezza leggera, l’aria scuote leggermente le foto appese)
Lo scorrere armonioso delle difese degli avvocati, la danza delle toghe all’interno del palazzaccio.
 Niente a che vedere con fuori, dove tira un vento feroce che quasi strappa le gigantografie delle facce degli operai morti, stese su un filo dai parenti, come lenzuoli funebri ad asciugare.
(Aumenta il rumore del vento e l’aria che si abbatte sulle foto appese quasi a strapparle)
Niente a che vedere con le grida dei parenti che hanno preferito rimanere fuori da quelle stanze. Sono un manipolo di persone, urlano nei megafoni, ma è come se non lo facessero, qualsiasi suono se lo porta via il vento forte.
(Finisce tutto. Silenzio.)
(Si avverte sottile il fischio di un microfono che fa contatto)
Dentro l’aula, il fischio di un microfono disturba i timpani sensibili degli avvocati, si perde un quarto d’ora almeno per cercare di eliminarlo, per aggiustare il guasto.
Perché l’avvocato che deve parlare ora è IL Professore.
Si alza lentamente ma con decisione e i lembi della sua toga si sollevano piano per il vento che entra da fuori.
Per un momento si sprigiona un odore dolciastro, come di fiori troppo maturi, un odore come di decomposizione. Dura un istante e poi svanisce.
(L’attore assume la posa del Professore)
“Io ringrazio i Signori giudici e i colleghi avvocati per gli sforzi comuni che stanno facendo per condurre il processo verso il più giusto esito. La seduta è ancora lunga quindi non toglierò loro tempo più dello stretto necessario”.
Non è mieloso il tono del Professore, non è adulatorio, non è condiscendente.
Non cerca approvazione, non cerca di convincere, non cerca di blandire.
Non è superbo, non è pomposo, non è arrogante.
E’ chiaro, è aperto, è fermo.
Il tono del Professore dice: stiamo discutendo tutti insieme, da pari a pari. Siamo dalla stessa parte, allo stesso livello. Lavoriamo insieme. Al bando i titoli di Giudice, Professore, Avvocato. Siamo un gruppo di operatori del diritto, innamorati del diritto, vogliamo tutti che il diritto trionfi, che sia interpretato al meglio.
“Qui – dice con convinzione il Professore – è proprio qui che si crea il diritto. Che si forma il diritto dello Stato. E tutti noi, tutti!, abbiamo il dovere, verso i cittadini presenti e futuri, di formarlo al meglio”.
Il qui del Professore, non è un qui astratto. E’ un qui incredibilmente presente e concreto. Con quel qui, il Professore ci ha investiti tutti, avvocati giudici pubblico, tutti noi siamo lì a fare il diritto. Con un discorso, con una frase, anzi con un unico avverbio, ci ha avocati tutti a lui. Ci ha chiamati a formare qualcosa. Ci ha responsabilizzati. E’ così che ci sentiamo, è così che si sente ognuno di noi, in quella stanza, in quel momento.
E’ in questa nostra disposizione d’animo comune che il Professore inizia la sua arringa.
Non la si può nemmeno chiamare arringa, è una lezione. Una lectio magistralis.
Per oltre mezz’ora il Professore parla della distinzione tra dolo eventuale e colpa cosciente. Ci riassume la questione, in termini semplici e immediatamente comprensibili. Ci espone le diverse correnti di pensiero e i loro argomenti. Ora siamo tutti in grado di capire, siamo tutti in grado di decidere. Ci ha reso tutti giudici.
E poi espone le sue di argomentazioni giuridiche, con pacatezza, convinzione, carisma. Dovizia di casi, dovizia di esempi concreti. Ci sentiamo bene a poterlo seguire nei passaggi piani e sensati della sua mente, nei paragoni, nelle similitudini. Tutto torna. Noi, proprio noi, riusciamo a seguire il ragionamento di un grande professore. E’ come se fossimo lui, come se fosse il nostro ragionamento.
In questa mezz’ora di lezione giuridica, non vola un suono, non si perde uno sguardo. Dai giudici che annuiscono involontariamente, al presidente che sorride lievemente per una dotta citazione latina, al carabiniere di piantone che non riesce a staccargli gli occhi di dosso, il Professore ha l’attenzione di tutti e non verrà meno fino alla fine. 
Poi d’improvviso tutto cambia. Il tono del Professore si fa veemente, le sue parole piene di pathos.
E per la prima volta, mezz’ora dopo aver iniziato, il Professore pronuncia il nome del suo assistito: Espehnanh.
Harald Espehnanh era l’amministratore delegato e membro del comitato esecutivo della TKAST con delega per la produzione, la sicurezza sul lavoro, il personale, gli affari generali e legali.
Suo era il potere decisionale, sua la gestione dei conti, suo il ruolo di garanzia per la sicurezza dei dipendenti. Si può dire che Espehnanh, insieme con i suoi consiglieri, i dirigenti e i membri del comitato, avesse in mano la vita e la morte della Thyssen Italia.
Espehnanh e, in diversa misura, gli altri imputati sono stati accusati di aver omesso di dotare la Linea APL5 di impianti e apparecchi destinati a prevenire disastri ed infortuni sul lavoro, di aver omesso di installare un sistema automatico di rilevazione e spegnimento degli incendi; di aver ignorato, trascurato e celato i segnali di pericoli, le relazioni degli ingegneri dell’assicurazioni, lo stato di degrado della struttura; di essere a conoscenza della concreta possibilità del verificarsi degli incendi, del fenomeno del Flash fire, della volontà della Thyssenkrupp di adottare qualsiasi misura volta a prevenire questi eventi e non aver fatto nulla.
Espehnanh e gli altri conoscevano la situazione. Questa ricostruzione è stata appurata in ogni grado del processo con prove documentali. Conoscevano l’elevato rischio.
“Giova ribadire, Eccellenze della Corte, Signori Avvocati, la differenza fondamentale tra dolo e colpa, che voi ben tutti sapete, che potete insegnare al sottoscritto, di gran lunga meglio di come farei io stesso a chiunque altro, eppure siamo qui per dissipare i dubbi del diritto. Tutti insieme. E perché questi dubbi non vengano pagati sulla pelle dei nostri assistiti.
Nel dolo, ben sapete, elemento fondamentale è la volizione. L’elemento della volontà. Non si può ridurre la figura del dolo eventuale alla mera rappresentazione dell’evento e all’accettazione del rischio, altrimenti non avrebbe una sua propria differente connotazione rispetto alla colpa cosciente. Quest’ultima prevede che si rappresenti come altamente probabile un evento, eppure si ritenga di poterlo evitare. Non lo si desidera. Ci si augura che non avvenga. Non lo si vuole.
Nel dolo eventuale, invece, quell’evento, quello che ci si è figurati come altamente probabile, bene, quell’evento lo si accetta. Lo si vuole.
E allora si sta dicendo qui, Signori miei, che il Signor Espehnanh, padre snaturato dei propri operai, abbia volontariamente omesso le cautele, abbia volontariamente evitato di dotare la struttura di adeguati apparecchi di rilevamento e spegnimento di incendi, ben figurandosi la quasi certezza della morte di quelle persone, ma preferendo a questa il risparmio dei fondi di investimento per poterli meglio utilizzare nella sede di Terni.”
Il Professore a questo punto non può trattenere il proprio sdegno umano, si accalora, alza la voce.
“Si sta dicendo che quest’uomo vedeva nella sua testa quei poveri corpi bruciati! Li aveva nella testa e accettava la loro sofferenza! Accettava la loro morte! E per tutto quel tempo lui aveva i corpi bruciati nella testa, eppure continuava ad agire secondo i propri scopi.
Si sta dicendo che lui quei morti bruciati li voleva. Vedete bene. Li stimava meno di zero, li riteneva un possibile incidente sul percorso, ma nonostante questo, procedeva inesorabile sulla sua strada.
Beh, dire così, Signori della Corte, Illustri colleghi, equivale a dire che lui sarebbe stato pronto a cuor leggero a sparare un colpo in testa a ciascuno di loro. Perché è la stessa cosa. Dire che li vedeva morti in quell’incendio e che la cosa non gli interessava, equivale a dire che era pronto a freddarli personalmente, uno ad uno, pur di perseguire i propri scopi economici.
E io non ci sto. Il diritto forse non può ricostruire la verità assoluta, ma sicuramente deve stare ben lontano dalla menzogna.
Sono stati compiuti errori in questa storia, errori drammatici. Ma non tutti dal mio assistito. Anzi, da lui quasi nessuno. Di molto lo hanno tenuto all’oscuro, molto credeva che si stesse facendo e non si era invece fatto.
E degli operai, invece, non si parla. Io non voglio recare oltraggio a quei poveri corpi straziati, ma il loro dolore non può ricadere come una piaga sulla vita del mio cliente. Vedete gli errori umani, sono gli errori più comprensibili e più facili da compiere. Quegli operai hanno compiuto degli errori quel giorno. Errori che si sono inseriti nella catena causale che ha portato all’evento drammatico ma che nessuno, per rispetto ai morti, ha il coraggio di ammettere, che nessuna delle Corti ha tenuto presente in motivazione. Non hanno centrato il rullo, alcuni non erano alle loro postazioni, c’erano rotoli di carta che non dovevano trovarsi assolutamente lì.
Non voglio recare oltraggio ai morti, ma devo proteggere i vivi.
La gente comune, vedete, si aspetta cose dal diritto che il diritto non può dare. Il giudizio non può far tornare indietro il tempo, il giudizio non può resuscitare i morti, il giudizio non può assicurare Giustizia. Il giudizio può solo essere giusto, nel senso di rispettare il diritto stesso, di rispettare norme, leggi e principi.
La gente si aspetta dal giudizio che plachi il suo dolore, che disseti la sua brama di vendetta, che calmi i loro animi feriti. Ma il giudizio non è fatto per tutte queste cose, non può fare tutte queste cose. Il giudizio è fatto proprio per mettersi tra di loro e gli altri uomini che hanno recato loro danno e, come un terzo altissimo, moderato, ma impietoso, come un terzo levarsi su tutti e su tutto. Il giudizio non dà consolazione, nessun giudizio lo dà. Deve dare pacificazione. Compensazione. Ordine.
Noi siamo qui per questo. Per fare ordine. Non accontenteremo nessuno. Anzi, saranno tutti scontenti, alla fine. Ma noi avremo fatto il nostro dovere se, nel compiere il giudizio, avremo rispettato il diritto.
Cambiate il diritto. Se qualcosa non vi va bene. Cambiate le leggi, cambiate i principi, cambiate le pene. Ma non chiedete al giudizio di farlo.
Non facciamo punizioni esemplari qui. Non facciamo intimidazione, prevenzione. Non è questo il compito di questa Corte e di nessun’altra. Non facciamo neanche carità, consolazione, guarigione. Il compito di questa Corte è solo dare un giudizio e proteggere il diritto, perché il diritto non sia mai piegato da una parte o dall’altra sull’onda dell’emozione e della commozione generale per un singolo caso. La giustizia è solo del singolo caso concreto, noi qui tuteliamo il giusto per ogni altro caso a venire. E il giusto è che non si veda dolo dove non c’è volizione, il dolo è la più terribile delle figure soggettive e deve essere valutata e riconosciuta con estrema cautela.”

*DOMANDA - Si ricorda, c'era odore e di cosa?
RISPOSTA - Odore di carne bruciata, possiamo dire, una puzza veramente brutta. Mi
sono avvicinato comunque al pulpito della linea 5 e ho visto Roberto Scola e Angelo
Laurino ormai straziati dalle fiamme, in condizioni orribili.
DOMANDA - In che condizioni erano? Ce lo vuole dire?
RISPOSTA - Completamente bruciati, non avevano quasi più niente, ormai in uno stato
orribile.
DOMANDA - Le si sono rivolti? Parlavano? Cosa dicevano?
RISPOSTA - Roberto non parlava, si lamentava solamente perché Angelo Laurino
continuava a urlare "aiutatemi, spostatemi, portatemi al sicuro".

RISPOSTA - Li abbiamo presi praticamente di peso per spostarli però urlavano dal
dolore, avevo paura a toccarli, la pelle ormai dura, compatta.
DOMANDA - Fece qualcosa sui corpi di queste povere persone?
RISPOSTA - Spostandoli praticamente, bastava sfiorarli per causare delle ferite, sensi
di colpa che sicuramente non dimenticherò.


RISPOSTA- Poi c'era un'altra cosa, una cosa che mi è rimasta ancora tutt'ora mi porto avanti, sentivamo delle fiamme però non si vedeva nulla e si sentiva, poi ho saputo dopo che era Antonio Schiavone che urlava e continuava a chiedere aiuto però non vedevamo dove fosse non si vedeva assolutamente nulla.
RISPOSTA- Mi girai e vidi seduto a terra Rodinò Rosario che a sua volta lui molto più cosciente di Scola Roberto mi disse di non preoccuparmi di lui ma di preoccuparmi piuttosto di Scola Roberto e di Angelo Laurino che erano molto più messi male di lui.


DOMANDA - Quando lei li ha visti non avevano più fiamme addosso?
RISPOSTA - No, non avevano più fiamme addosso però avevano i corpi completamente
carbonizzati, tant'è vero che ricordo la posizione di Laurino che sembrava un bimbo
appena nato cioè una persona di una certa altezza ridursi in quelle condizioni, e anche
in quel caso dovetti alzare la voce per farmi riconoscere.
DOMANDA - Lui non vedeva?
RISPOSTA - No, non mi poteva vedere perché gli occhi completamente andati.
DOMANDA - Però era cosciente? Anche Laurino?
RiSPOSTA - Sì era cosciente perché Laurino mi ripeté di non abbandonare la moglie
con i figli di stare vicino alla propria famiglia di accompagnarli in questa situazione.
RISPOSTA- …e all'improvviso dal fumo è uscito fuori Bruno, è uscito Bruno venendomi incontro è lì che mi sono reso conto di qualcosa che non va perché ho fatto una panoramica, ho visto comunque che non aveva scarpe era nudo, mi veniva incontro Bruno a braccia aperte, è il mio incubo, mi veniva incontro a braccia aperte urlando " non voglio morire non voglio morire". De Masi era fermo lì che diceva: " cosa ho in faccio cosa ho in faccia?" e Gaspare Trere gli diceva " non ti preoccupare non hai niente", ma il mio incubo è continuamente ancora Bruno che mi viene incontro a braccia aperte.

No, Espehnanh non vedeva nella sua testa queste scene. Il problema è stato proprio questo, che la sua mente e il suo cuore non vedevano.
Non ha visto uomini grossi ridotti a feti rotolarsi per terra, non ha visto il fantasma di un uomo bollito che esce dalle fiamme a braccia aperte urlando, non ha sfiorato con le mani una pelle dura in cui si aprivano piaghe enormi ad ogni tocco. Espehnanh non ha visto tutto questo, né lo avrà mai, per tutta la vita, nelle orecchie, nella testa e negli occhi. Lui, e gli altri dirigenti, nel decidere di non mettere in sicurezza l’impianto hanno accettato il rischio che questo si verificasse. Se lo sono rappresentato, non così vividamente, magari scegliendo di figurarsi un incendio senza morti, come quello di Krefeld, e lo hanno accettato. Hanno sperato che non accadesse, certo, per loro e per gli altri, ma hanno abdicato al ruolo di tutela e di garanzia che avevano nei confronti delle persone che lavoravano per loro.

Li hanno lasciati inermi e disarmati nel mezzo del pericolo sperando che se la cavassero.

Chissà se ora però, una qualche notte, Espehnanh non li veda, quegli uomini vivi mummificati e lacerati, nudi, coi tratti squagliati, i capelli e le ciglia carbonizzati. Chissà se sono venuti a visitarlo in sonno, quando è più fragile, e se la moglie lo ha visto sudare nel letto, senza riuscire a svegliarlo.


 (Si spengono tutte le luci, quando si riaccendono i tavoli e le scritte al muro sono coperti da lenzuola polverose, come quelle con cui si coprono i mobili nelle case quando vengono lasciate disabitate per lunghi periodi.)


Il giorno dopo aver assistito all’ultima udienza del processo Thyssen sono partita per un periodo di studio all’estero.
Durante il volo, quando ho toccato la terra di un altro Paese, ho pensato, ho continuato a pensare a cosa fosse servito il processo di cui avevo vissuto l’epilogo e il cui esito sembrava già scontato. Ho pensato a cosa servissero tutti i processi che si sono succeduti in Italia in anni e anni e che paiono nascere destinati a rimanere oscuri, destinati a non raggiungere la luce, a cullarsi la verità in grembo e poi abortirla dentro di loro.
Ustica, Enichem, Thyssenkrupp, Ilva, sono nomi che avete sentito, che vi sono familiari, che vi evocano sensazioni fastidiose, che forse non riuscite a capire, un sentimento di confusione, di sospetto, forse anche di senso di colpa. Ma perché? Vi chiedete. Cosa c’entrate voi con l’amministrazione della giustizia dello Stato, con gli esiti di processi che riguardano morti lontane e sconosciute? Perché provare questo vago disagio, un sentore di ingiustizia, addirittura un senso di vergogna?
C’è una parola, nel greco antico, che esprime bene la natura complessa di questa sensazione, la parola è aidos.
Aidos partecipa del significato della vergogna, ma più che essere un sentimento personale, soggettivo, è qualcosa di profondamente legato alla collettività. Aidos è provare vergogna quando qualcuno assiste alla nostra vergogna, al nostro disonore. Ed è aidos quello che ci lega quando sentiamo dei processi insoluti, dei processi dirottati, corrotti, assassinati, lo leggiamo sui giornali e ci vediamo svergognati, andiamo per le strade, guardiamo gli altri ed è aidos quello che vediamo nei loro occhi e sentiamo che loro ci guardano e vedono la nostra vergogna e la loro riflessa. E’ questo sentimento insopportabile di vergogna che inconsapevolmente lega tutto un popolo quando la giustizia che è amministrata in suo nome viene meno, viene offesa, viene ignorata, viene abbandonata.
(Appaiono le scritte proiettate sul lenzuolo appeso al muro al centro del palco, l’attore le indica e le legge scandendo forte)

La giustizia è amministrata nel nome del popolo (art. 101 comma I Cost.)

La sentenza è pronunciata in nome del popolo italiano (art. 125 comma II c.p.p.)

La sentenza contiene: a) l'intestazione «in nome del popolo italiano» e l'indicazione dell'autorità che l'ha pronunciata (art. 426 comma I e 546 comma I c.p.p.)

Riguarda noi.

Questi articoli della nostra Costituzione e dei nostri codici, ci stanno dicendo quello che già sappiamo, che avvertiamo bene: riguarda noi.
E non solo noi come cittadini italiani. Riguarda noi come esseri umani, come membri della razza umana.

Sentenza di primo grado, a quattro anni dall’incendio.
(Scritte proiettate sul lenzuolo mentre l’attore le recita)

Tribunale ordinario di Torino
Repubblica Italiana
In nome del popolo italiano
L’anno 2011, il giorno 15 del mese di aprile, La Seconda Corte d’assise di Torino condanna l’amministratore delegato Esphenhan a 16 anni e 6 mesi di reclusione, per il delitto di omicidio volontario plurimo (artt. 81 comma 1, 575 c.p.), incendio doloso (art. 423 c.p.) e omissione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro aggravata dall’evento (art. 437 comma 2 c.p.). Gli altri cinque imputati, amministratori e dirigenti dell’impresa, vengono condannati per il delitto di omissione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro, nonché per omicidio colposo plurimo e incendio colposo, questi ultimi aggravati dalla previsione dell’evento. La Corte, altresì, riconosce la responsabilità amministrativa della società, condannando la  ThyssenKrupp Terni S.p.A. per omicidio colposo ed infliggendole una sanzione pecuniaria pari ad un milione di euro, nonché disponendo  sanzioni interdittive e la confisca del profitto del reato per una somma di 800 mila euro.

Sentenza di secondo grado, due anni dopo.

Corte d’assise d’appello
Repubblica italiana
In nome del popolo italiano
L’anno 2013, il giorno 28 del mese di febbraio, La Corte d’assise d’appello riduce fortemente le pene, ritenendo non configurabile la fattispecie di omicidio volontario per Espehnanh e riconoscendogli alcune attenuanti, condannandolo infine a 10 anni di reclusione. Le pene sono ridotte anche per tutti gli altri imputati.

Sentenza di Cassazione, un anno dopo

Corte di Cassazione
Repubblica Italiana
In nome del popolo italiano
Anno 2014, il giorno 24 del mese di aprile, la Suprema Corte ha un compito fondamentale. Potrebbe mettere fine al processo, in quello stesso giorno, confermando la sentenza di appello. Invece, pur affermando ancora una volta le responsabilità, rinvia a un nuovo processo d’Appello per rideterminare le pene. Che, per legge, possono essere rideterminate solo al ribasso.

Il nuovo processo si svolge a distanza di un anno. Nuovi sconti di pena, anche se molto contenuti. Espehnanh è condannato a 9 anni e 8 mesi. Nuove promesse di ricorsi in Cassazione.

E così l’ultimo atto del processo Thyssen non è stato affatto l’ultimo.
 (Si spengono le scritte)

Aggiustare il guasto. Questo dovrebbe essere il fine della giustizia dello Stato. Aggiustare là dove qualcosa, nella società, si è rotto, ma, come qualsiasi artigiano sa, non tutti i metodi sono adeguati. Esiste un mezzo più giusto degli altri.
La giurisdizione è la giustizia del caso concreto, non esiste una giustizia data, una giustizia a priori, la giustizia non risiede nell’alto dei cieli, la giustizia è nel profondo buio degli intestini della Terra. Va cercata, va individuata, va scavata, ricondotta alla luce, pulita, levigata. E’ questo e nient’altro il senso di un processo. E’ un insieme di atti, collegati gli uni agli altri, preordinati gli uni agli altri, necessari perché si cavi quell’ammasso di roccia più promettente delle altre, necessari perché pulendolo, si intravveda uno scintillio. Cosa credete, che la Giustizia sia una cosa data in natura? Già preconfezionata? O che venga decisa e creata a tavolino da quegli stimabili uomini che occasionalmente si divertono a vestire toghe nere e a giocare con le norme dei codici? La giustizia c’è, è lì, è sepolta nel caso concreto, ci vogliono gli sforzi comuni di molti uomini, compresi quelli dei signori avvocati, perché la si possa cacciare fuori.

Ed io?
Il mio lavoro è ricercare e studiare il diritto.
Sul libro di Procedura penale, all’epoca in cui preparavo l’esame all’università, avevo scritto al margine:
“Non giudice, né imputato, ma testimone sempre”.
Ho capito che se ho una vocazione, è quella alla testimonianza. A portare testimonianza. 
Se ci fosse una carriera da testimone, io la farei, cercando di affinare le doti di attenzione, memoria, analisi della realtà, imparando l’abilità di trovarsi sempre là dove succede qualcosa o di testimoniare semplicemente quello che accade attorno.
Che cos’è il mestiere dello scrittore, se non quello del testimone?
Gli scrittori sono collaboratori di giustizia, scrissi una volta. Collaboratori di realtà. Vivono per fare il controcanto alla vita propria e altrui.
A quale fine? Nessun fine. Il testimone, lo si sa, è persona che non ha interessi nel processo. Non ha un proprio interesse da salvaguardare. O almeno non dovrebbe.
Gli scrittori quali testimoni della realtà non hanno interessi da difendere in quel processo faticoso e litigioso che è l’esistenza. Semplicemente vogliono raccontarla.
E da testimoni diventano anche i propri inquisitori. Fanno l’interrogatorio di se stessi. Spesso incrociato, accusa difesa accusa. Si pongono le domande, giurano di rispondere secondo verità, almeno al meglio della propria verità.
E sta tutto qui il ruolo dello scrittore nell’esistenza, come del testimone nel processo. Collaborare a far emergere la verità. Non importa quale, non esiste una sola verità, ma una composizione di tante che hanno bisogno di essere cavate fuori.
Purché sia vera, va bene qualsiasi verità.
Io non stavo là, all’ultima Udienza Thyssen, per fare giustizia. Non ero lì neppure a fare ingiustizia. O a subirla. Non soffrivo nella mia carne e nel mio sangue le perdite di quegli operai, non entravano nel mio conto in banca i soldi di quegli imputati.
Io ero lì per vedere. Per conoscere e per capire. Forse, per poter poi raccontare a chi non c’era come in un’aula di tribunale passino realtà e irrealtà, scienza e profitto, sentimento e freddezza, dolore e noia, spesso tutti insieme, spesso nei medesimi soggetti.
 Come in un’aula di tribunale passi per un attimo la Giustizia e poi la si perda. Ma quell’attimo ci è stato, tutti l’hanno visto. Io l’ho visto.
Ed è questo che posso testimoniare: la giustizia esiste. Io l’ho vista.
Certo, per come è finita, non appartiene a questo processo, ma è tra gli uomini, c’è.
 Non bisogna disperare. Verrà il tempo, verrà il luogo in cui qualcuno la saprà afferrare. Saprà farla restare. Alle volte, poche volte, è accaduto.
(Le luci si spengono sull’attore, inizia una musica, sullo sfondo è proiettata questa frase di Calamandrei)

Sotto gli archi del processo, scorre la fiumana inesausta della sorte umana: nessuno più del processualista affacciato a quelle spallette può cogliere, se ha orecchio per sentire, le voci che salgono dai gorghi di questa corrente, quest’ansito universale di giustizia, e il dolore dell’innocenza ingiustamente colpita e la consolazione di chi si accorge (perché anche questo può accadere talvolta) che alla fine la forza cieca debba arrendersi alla ragione disarmata.
Piero Calamandrei

(Le luci si riaccendono sull’attore girato a guardare le scritte dietro di lui, le indica, legge l’ultima frase)

Perché anche questo può accadere talvolta: che alla fine la forza cieca debba arrendersi alla ragione disarmata.








Per Antonio SCHIAVONE: "la morte...è stata causata da ustioni di terzo e quarto grado estese al 90% della superficie corporea, che hanno determinato un quadro di shock primario immediato con meccanismo dicardiaco o neurogeno.”
Per Roberto SCOLA: "...trasportato al DEA dell'Ospedale CTO di Torino...presentava ustioni di terzo grado sul 95% della superficie corporea. Erano risparmiate solo le piante dei piedi ed una piccola area sulla sommità del capo...All’ingresso era cosciente e molto sofferente...arresto cardiocircolatorio...dopo venti minuti di tentativi infruttuosi si constata il decesso.”
Per Bruno SANTINO: "...vengono rilevate ustioni estese al 90% della superficie corporea.”
Per Angelo LAURINO: " ...il paziente giunge cosciente preso il DEA dell'Ospedale Giovanni Bosco di Torino. All'esame obiettivo vengono rilevate ustioni estese di II e III grado al 96% della superficie corporea...”
Per Rocco MARZO: " La distribuzione delle lesioni è particolarmente omogenea, con ustioni profonde, di III grado, uniformemente diffuse su tutta la superficie del corpo. Una simile distribuzione è raramente osservabile in soggetti ustionati e, nel caso di specie si può armonizzare con il fatto che I'uomo sia stato investito da una nuvola di olio incendiato e, quindi, da un liquido incandescente che si è uniformemente distribuito su tutta la superficie del corpo e che, inoltre, ha incendiato in modo pressoché uniforme tutti gli indumenti indossati...”
Per Rosario RODINO': "…decesso del paziente per ustioni di 2 e 3 grado estese al 90% della superficie corporea. Ventilazione meccanica. Fiamma da combustione di olii sul Lavoro.
Per Giuseppe DE MASI: "... la causa della morte fu uno stato settico (in particolare una polmonite bilaterale) insorto quale complicanza del decorso di gravissime ustioni. Si tratta di ustioni valutate clinicamente all’ingresso come di II e III grado, estese al 90%della superficie corporea, ripetutamente sottoposte ad interventi di estarectomia volti a rimuovere i tessuti necrotici e ad innesti cutanei allogenici.”



*Registrazioni e testimonianze tratte dai testi delle sentenze